All'inizio c'era lei...Donna Cayetana, Duchessa d'Alba

Adoro Goya. E adoro soprattutto lei. Donna María del Pilar Teresa Cayetana de Silva y Alvarez del Toledo, meglio conosciuta come la Duchessa d'Alba. La modella prediletta di Goya. La sua musa. La sua amante. La fonte della sua passione e del suo dolore. Cayetana è uan seduttrice, aperta a tutte le esperienze, libera nel corpo e nella mente. Eppure vibra di una passione totale, che è evidente persino nel quadro, solo per Francisco. Il resto sono "balocchi e solazzi" nulla di più. Ed è qui l'ossimoro. Questa donna è una meravigliosa fonte di contraddiziuoni disciolte, intrecciate, fuse l'una nell'altra... esattamente come sono io. In me convivono luci e ombre, mescolate non tanto in una grigia penombra quando in un continuo lampeggiare di bagliori, scolorare di albe, addensarsi di nubi squarciate da oasi di sereno. Sono come Cayetana intessuta di contraddizioni. E seduttrice della vita prima di tutto.

giovedì 27 dicembre 2007

PERLE


Osservo i fili di perle mescolati in quella vecchia cappelliera. Perle colorate e brillanti. Opache e trasparenti. Spiccano sul fondo di velluto scuro. Scrigno accogliente e malizioso. Accarezzo lieve il primo filo. E sgrano il rosario osceno dei miei desideri. Un filo per ogni colore. Un colore per ogni voglia. Una voglia per ogni senso. Un senso per ogni inebriante sapore del tuo corpo. Declino appassionati versi. Cerco insoliti fraseggi. Armoniche divagazioni sgorgano nello scorrere continuo di sferiche perfezioni sulla pelle calda.
Articolo rime. Tentativo di lenire dolore inflitto e ricercato. Musica. Nell'incontro sincopato di voglie e muscoli. Dolore e paicere. Fusi.

Perle bianche.



Candide come la voglia fanciullesca
che mi prende ora.
Passare quel filo tra le nostre bocche.
Recitare all’unisono il mantra della voluttà.
Labbra, denti, lingue
a lucidare la fredda rotonda consistenza.
Overture lieve di sonate barocche.

Perle gialle.

Calde di sole.
Luminose e armoniosamente rotonde,
come le curve dorate del mio corpo,
offerte al tuo sguardo.
Brama violenta e dolce.
Incanto dei sensi
nello scivolare lento di vesti.
Si sprigiona un sentore di bosco.
Intermezzo vivaldiano.

Perle rosa.

Chiare e scure.
Accese di riflessi cangianti.
Avvolte in spirali voluttuose intorno ai tuoi polsi.
Prigione preziosa.
Costrizione apparente.
Ricerco lenta il sapore congiunto.
Oscillo umide pieghe intorno a robuste cime.
Gioco.
Armonie notturne.

Perle blu.

Trasparenza nell’oscurità.
Articolo tensioni di pelle e cuore.
Sento armoniche variazioni del dominio.
Alternanza sublime
nello sciogliersi armonico di voluttà opposte.
Prendo. Do.
Unisono continuo.
Il piacere scivola come seta preziosa.

Perle nere.

Dolore sferzante.
Carne esposta.
Fremere di tendini.
Tensione.
Cerco il tuo dolore.
Esibisco la mia anima.
Paradisiaco inferno.
Penetro riposti anfratti.
Violo custoditi pensieri.
Lacrime colano su pelli fuse
nel calore dell’abbraccio.


NOI: APPARTENIAMO

martedì 11 dicembre 2007

La bocca della verità

Piove
su vestigia antiche e nuovi vincoli
Rumore di tacchi e spirali di fumo
A colmare silenzi che sanno di storia
Piove
Su memorie scolpite e ricordi ridenti
Stracciatele di vino e parole seducenti
Ad avvolgere di malia il tempo condiviso
Piove
Su note vibranti e alcoliche divagazioni
Rabbiose reazioni e istintive collocazioni
A saggiare la consistenza di muri e passioni
Piove
Su vetri appannati e pelli confuse
Rotti silenzi e libere emozioni
Ad inverare istinti accesi
Piove
Memento di lacrime sul proscenio
Piove
Sorrisi bagnati di noi

mercoledì 21 novembre 2007

LEZIONI!!!!

Pioveva. Una fitta pioggia novembrina. Satura di gocce. Confusa nell’ultima nebbia dell’anno. Le era sempre piaciuto quel lento declinare del rosseggiante autunno nella decisa oscurità dell’inverno. Amava quel tempo. Bagnato di aspettative. Accesso di luci. Come lei. Stava cercando. Ancora una volta. Cercava una fantasia da incarnare. Una voglia da soddisfare. Un uomo da amare. Forse.
La pioggia scivolava lenta sulla tesa lucida del suo borsalino nero. L’impermeabile le accarezzava i fianchi mentre con ampie falcate percorreva quella vecchia stradina lastricata di ciottoli che portava al luogo dell’appuntamento.
Aveva scelto accuratamente quel posto. Leo aveva bisogno di una lezione. E lei… Lei dannazione aveva bisogno di lui. Sentiva quel bisogno crescerle dentro. Prepotente. Le toglieva il respiro. Le mordeva le viscere per farsi liquida ustione tra le cosce. L’avrebbe controllato per tutto il tempo che le sarebbe servito.
Quel luogo l’avrebbe aiutata. Era pregno di ricordi. Raccontava le tappe della sua esistenza. La sua evoluzione di donna. Per questo non aveva mai voluto separarsene. E la casa era ancora lì. Con i suoi balconi di ferro battuto. I suoi muri di mattoni, come si usava una volta, quei cortili interni, dove la vita giocava a rimpiattino col dolore. Era il suo rifugio. Il luogo dove anche nei momenti peggiori aveva potuto sentire di essere al sicuro. Protetta.
Sofia faceva scorrere lentamente le mani sulla morbida pelle del vecchio divano che aveva ereditato da sua nonna. Quello in cui bambina ascoltava rapita la voce di quella donna che tanto aveva vissuto narrare di pittori e musicisti, di ballerine e poeti.
Parigi. Un giorno ci avrebbe portato Leo. Gli avrebbe mostrato l’anima baldracca di quella città. La poesia violenta di certi suoi vicoli improvvisamente aperti su petite cafè di una bellezza struggente. Ma non era tempo ne di propositi ne di ricordi. Era ora di agire. Aveva poco minuti prima che Leo arrivasse e lo spettacolo iniziasse. Doveva organizzare la scena al meglio. Accese le molte candele sparse per la stanza. Le fiammelle calde gettavano una luce ambrata sul suo volto. Accendendolo di mistero. Fissò le tende di seta indiana, che dividevano la stanza da letto dall’unica altra camera del piccolo appartamento, ad un lato degli infissi di legno con delle corde. Lo stereo diffondeva le note seducenti della voce di Cohen. Toni bassi di ruggine e tabacco. Sofia sorrideva mentre una scia di vestiti andava a segnare un sentiero che Leo non avrebbe potuto evitare di compiere.
Leo era teso. Talmente teso, che non avvertiva nemmeno il battere ritmico della pioggia sulla schiena, mentre cercava il luogo, in cui Sofia gli aveva dato appuntamento. Il lampeggiare del suo cellulare lo aveva colto nel dormiveglia. Non si aspettava che lei scegliesse quel modo per richiamarlo all’ordine. Al suo ruolo. E a quello di lei. A ciò che lui le doveva. Ma in fondo non ne era davvero stupito. Quella donna era imprevedibile e crudele in un modo che continuava ad affascinarlo.
Ecco l’aveva trovato. Una vecchia casa di ringhiera. Piena di fascino e perfettamente ristrutturata. Tipico di Sofia. L’aveva costretto ad entrare nel suo territorio per battersi. E lui ovviamente aveva fatto il suo gioco. Sicuro che comunque fosse andata per lui sarebbe stata una vittoria. Ma ora iniziava ad avere qualche dubbio mentre saliva a due a due le rampe di scale che portavano all’appartamento di quella che ormai per lui era la sua compagna dell’anima. La sua signora. La porta era aperta. Leo entrò ancora incerto su cosa aspettarsi. Fiammelle di candele e quella dannata voce. Leo ancora non riusciva a capire cosa ci trovasse lei in quel tizio che sussurrava invece di cantare storie di puttane e poeti che poco avevano a che vedere con il loro mondo. Si spogliò non aveva ricevuto alcuna istruzione in tal senso. Ma non ne aveva bisogno. Le mutandine di Sofia che pendevano dal paralume nell’angolo erano un’indicazione chiarissima per lui della volontà della sua Signora.. Prese le corde lasciando ricadere la cortina delle tende come se li richiudesse in una bozzolo. Una dimensione tutta loro. Fece il cappio e lo strinse intorno al cazzo senza esitazione. Il suo guinzaglio. Ma niente avrebbe potuto davvero prepararlo a ciò che vide quando alzò lo sguardo sul letto.
Ne era stata certa. Era paralizzato dallo stupore. Bene avrebbe imparato meglio la lezione. Sofia stava per dimostragli che il dominio non è un fatto di posizioni o di strumenti ma di carisma. Gli sorrise: “Vieni Leo. Non credo tu abbia bisogno davvero di spiegazioni. Sai cosa devi fare e anche perché. Ma puoi scegliere la fuga. Io anche volendo come vedi non potrei fermarti. Bon chance mon petite jolie!”.
Bastarda. Sorrideva. Dannazione. Maledetta troia crudele e adorabile. Lo aveva fregato. Lo guardava con quegli occhi cangianti. Era legata. Bloccata mani e piedi da robuste corde di seta nera al letto di ferro battuto. Il viola del morbido cuoio del suo regalo le fasciava i fianchi torniti spiccando in tutta la sua eretta promessa di doloroso piacere. Dio se era stronza! Voleva lo facesse da solo. Era pronta a rischiare tutto. A restare lì legata, pur di ottenere la sua resa. Leo era furioso. E ammirato. Quella donna aveva un coraggio e una forza assoluti. Lo avrebbe fatto ovviamente. Su quello non c’erano dubbi. Non era così stupido da negarsi ciò che voleva più di ogni altra cosa, l’estasi del suo possesso, solo per uno stupido moto di orgoglio. Ma un conto era lasciarla vincere. E vincere con lei. Un’altra farla stravincere. Leo doveva trovare una cosa. Un piccolo, apparentemente innocuo, gesto che però le avrebbe fatto capire che lui aveva compreso molto di più di quello che era stato nelle intenzioni di lei lasciargli capire. Si avrebbe fatto così. I capi delle corde del suo guinzaglio erano abbastanza lunghi. Leo sorrise a sua volta alla magnifica femmina in attesa sul letto: “Troia e bastarda. Lo sai bene che non ho scelta. Non quando l’odore della tua fica mi intossica la mente e la forza della tua voglia mi scuote le viscere. Ma non è finita… “.
Leo si mise a cavalcioni sul corpo di Sofia e incatenando lo sguardo di lei al suo iniziò lentamente a calarsi sul dildo svettante. Lo accolse cm dopo cm nel suo culo. E quando fu completamente dentro, lei in lui, afferrò i capi del guinzaglio da cazzo e li legò saldamente all’anello del collare di morbidissima pelle che Sofia indossava. Ecco ora erano pari. Ancora una volta. Ad ogni movimento del cazzo di Leo determinato dalla cavalcata che Sofia gli aveva imposto, la bocca di lei si sarebbe trovata ad un cm dalla sua cappella. E non avrebbe saputo resistere.
Cazzo. Cazzo. Cazzo. Quel dannato arrogante bastardo aveva capito. Perfettamente e, molto di più di quello che lei si era augurata. Sofia non sapeva se usare il poco fiato che le restava per insultarlo o vezzeggiarlo. Nel dubbio lasciò fosse la musica a parlare.
“That you've always been her lover, And you want to travel with her, And you want to travel blind, And you think maybe you'll trust her, For you've touched her perfect body with your mind”.
La voce di Cohen cullava Leo. Ritmando il crescendo della sua cavalcata selvaggia. Parlando di lui. Del viaggio nell’oscurità, che era pronto a fare per lei. Insieme a lei, l’unica di cui poteva davvero fidarsi, perché ne stava toccando il corpo perfetto, con la mente.
L’estasi lo colse. Un minuto prima dell’oblio Leo la chiamò per nome: “Amore!”.

mercoledì 14 novembre 2007

Sveltina di sensi e parole

Ero indecisa. Fino all'ultimo minuto. Ho optato, poi, per i collant portati a pelle. La microfibra non irrita come il naylon. Gonnellina al ginocchio, canotta e microcardigan, viola, semislacciato. Stivali di camoscio anche essi viola, tacco 10, naturalmente. Cappotto e via. Minuti contati. Cellulare lampeggiante e passo rapido. Mi sono persino stupita di riuscire a controllarmi il tempo di entrare in macchina e arrivare a casa tua. Sarà stata la divisa. In fondo, sciupartela mi sarebbe spiaciuto. Almeno un pochino. Per un secondo diciamo. Va.
E' che appena entrati in casa, invece di inserire il turbo ho inserito il rallenty. E il mio corpo si è modellato sul tuo. Curva dopo curva. E non se n'è più staccato. Ho guidato la tua mano nei miei collant. Tra le mie cosce. Non che avessi bisogno di sollecitazione alcuna, ma mi piace "guidarti". Lo sai bene. Il tuo cazzo ha risposto da bravo soldato all'istante.
Mi piacciono i soldatini obbedienti ma non troppo. Così mi offrono l'occasione di punirli. Oggi non c'era tempo. Così le tue mani sono scivolate comoda sella sul mio sesso bollente. E io ho ondeggiato finchè la voglia di cazzo non mi ha lasciata senza fiato. Pochi minuti. Il tuo fiato rotto mi accarezzava la pelle delicata del collo. Lì appena sotto il lobo dell’orecchio. La mia mano artigliava il tuo culo. Torta all’indietro, ma decisa ad incidere tracce rossastre. Nonostante il dolore. Mi sono offerta al tuo ritmo martellante. Il mio corpo sostenuto in geometrica angolazione solo dalla tua ossessione violenta. Cercavi il fondo. Quello della mia fica. Quello della tua voglia. L'hai trovato. L'esplosione repentina ci ha lasciato senza fiato. Il mio corpo ha bevuto avido il gusto mescolato delle nostre rabbiose volontà.
Dopo. Tempo rapido di chiacchiere e risate, nell’abbraccio della penombra creata ad arte, in una mattina di fine autunno.
Rimane una sola domanda. Non ti avevo esplicitamente chiesto di portarmi un bicchiere?

lunedì 12 novembre 2007

LA PUNIZIONE

Era furiosa. Addolorata. Ferita. E furiosa. Si aggirava come una belva in gabbia. Il sangue le ruggiva nelle vene. La mente non riusciva a staccare un dannato minuto da quel dolore rabbioso. Non sapeva nemmeno lei perché si lasciasse divorare così. Lei aveva sempre il controllo delle sue emozioni. Sapeva attendere. E colpire con precisione millimetrica. Non scopriva mai il fianco e feriva con precisione millimetrica. Sempre e comunque laddove aveva voluto colpire. Eppure. Quel dannato ragazzo l’aveva spinta talmente oltre, che si era scoperta. Dannazione non era davvero da lei. Calma. Doveva stare calma. Respirare. Controllarsi. Non si era nemmeno accorta di essersi scorticata i polsi con le unghie laccate di un viola, sorprendente per chiunque, ma non per lei. Guardava quasi stupita il suo sangue sgorgare da quei graffi sottili. La mentre proiettata altrove. Verso l’odore di un'altra pelle ferita, di un altro sangue sgorgante e di lacrime che, finalmente, l’avrebbero placata. Forse.
Doveva andare là. Nell’unico luogo in cui sapeva sarebbe stata compresa totalmente. Nel luogo in cui, il balsamo dolce dell’obbedienza incondizionata l’avrebbe avvolta fino a restituirla a se stessa. L’aura di quell’uomo era talmente perfetta che ogni volta se ne stupiva. Nonostante, ormai, lo conoscesse da anni. Lo schiavo perfetto. Quando le avevano raccontato della sua esistenza e, di quella piccola bottega non ci aveva creduto. E invece lo scetticismo cinico della sua professione aveva dovuto arrendersi all’evidenza poetica della vita e del piccolo perfetto scrigno di sogni che la libreria rappresentava, per chiunque avesse la ventura di posarci piede anche solo per pochi minuti. Era diventata il suo rifugio. E lui il suo mentore. La sua guida. Bastava uno sguardo a volte e la sua anima guerriera trovava requie. Voleva credere che anche stavolta sarebbe andata così.
Lui il ragazzo l’aveva sconvolta. E non era certo impresa facile. La sua ribellione. Il silenzio. Gli sgarbi. L’aveva lasciata completamente esposta. Non tanto verso di lui. Questo era nell’ordine naturale delle cose. Ma verso se stessa. Aveva dovuto ammettere di non averlo previsto e questo era intollerabile. Le redini del gioco dovevano rimanere solo nelle sue mani. Non avrebbe mai permesso al ragazzo di scombinare le carte fino a quel punto.
Ora doveva trovare un modo chiaro, netto, inequivocabile per rimettere le cose a posto e placarsi. Mentre camminava a passo deciso verso la libreria era quasi certa di aver trovato cosa. Ma aveva bisogno dell’aiuto del librario.
Eccola. Aveva avvertito il tumulto della sua anima da tempo. Ma aveva aspettato. Non era pronta a venire da lui. Non ancora. Era splendida come la ricordava. Gli occhi di onice brillavano sotto la corta tesa della cloche di feltro rosso che indossava. E quelle gambe. La sicurezza ritmica delle sue falcate era inebriante. I tacchi di acciaio dei suoi stivali di camoscio nero brillavano all’insolito sole autunnale. Il cielo aveva deciso di regalare alla Signora una giornata degna di lei. Il libraio non aveva dubbi. Era pronta. Aveva preso una decisione. Quasi invidiava il ragazzo. Godere della furia scatenata di quella Signora era un privilegio. Un dono preziosissimo. Lui lo avrebbe custodito come il più prezioso dei diamanti. Non era così sicuro che il ragazzo fosse pronto a fare altrettanto. C’era ancora troppo orgoglio in lui. Non era pronto a piegarsi totalmente. Ma, se avesse superato degnamente questa prova, allora, sarebbe diventato un buon discepolo. Forse. Avrebbe finalmente potuto trasmettere tutto il suo sapere a qualcuno che ne fosse davvero meritevole.
Era stato sgradevole. Se ne rendeva perfettamente conto. Aveva lasciato che il vento gelido della rabbia nascondesse il dolore che provava. Era ferito. E non gli andava di mostralo. Proprio a lei. Così l’aveva colpita. Era quasi rimasto stupito di averlo potuto fare. L’effetto sorpresa della sua ribellione l’aveva lasciata con la guardia abbassata. Doveva riconoscere che lei però era stata grande nella sconfitta come, lo era sempre nella vittoria. Aveva incassato i colpi col sorriso. Non c’era stata una sola incrinatura apparente nel suo sorriso. Non aveva vacillato. Ma lui sapeva che, già, si stava preparando a fargliela pagare. Si era anche fuggevolmente chiesto se sotto tutto il dolore. Al fondo di quel dolore che gli ghermiva l’anima non l’avesse provocata apposta. Lo schiavo in lui ora tremava. Non sapeva distinguere se di anticipazione o paura. Ma avrebbe pagato fino all’ultimo centesimo. Non l’avrebbe delusa in questo. Mai. Lui le apparteneva di questo non avrebbe mai permesso che lei dubitasse un solo singolo istante.
Eccolo l’ingresso della libreria. Il vecchio librario lo accolse con un sorriso in cui brillava tutta la consapevole complicità di un uomo che conosce perfettamente il destino dell’altro. E forse un po’ lo invidia. Il giovane uomo seguiva i passi lenti del librario lungo la scala a chiocciola di molato ferro battuto. Verso quella stanza ricoperta di preziosi incunaboli e, rischiarata solo dalle torce. C’era già stato una volta. E non aveva mai potuto dimenticarlo.
Era seduta su una sedia medioevale che pareva un piccolo trono. Lo schienale rivestito di velluto cremisi incorniciava il suo volto dalla carnagione dorata accendendole gli occhi di riflessi ferini. Il corsetto di pelle viola che indossava sopra l’aderente gonna di seta non lasciava dubbi sulle sue intenzioni. Violente. Sanguinose. La bocca gli si era seccata. Le note della cavalcata delle valchirie riempivano l’ovattato silenzio della stanza. Un brivido di calda anticipazione lo attraversò.
Lo guardò. Ora che era davanti a lei. Si sentiva invasa da una calma perfetta. Il tavolo di ebano nero nell’angolo della stanza sembrava chiamarla sornione. Si alzò e afferrata la sottile striscia di cuoio nero spinse il ragazzo con il volto sul tavolo. Lo teneva schiacciato contro il tavolo con una mano. Sorrideva mentre con l’altra gli allacciava il collare dal quale pendeva una corta catena di acciaio a mo di guinzaglio.
“Oggi ti insegnerò un paio di cose ragazzo. Sono certa che non riuscirai più a dimenticarle. Ad una Signora si deve comunque rispetto. Alla propria Signora si deve sempre devozione. Sempre, ragazzo!”.
Senza nemmeno rendersi conto come si ritrovò coi polsi bloccati al muro, disteso sul tavolo. Supino. Le gambe spalancate. Lei si era sfilata la gonna e aveva agganciato la sua cintura fallica. Quella viola, che lui le aveva regalato. Nella mano destra lo spanker di cuoio nero.
Il libraio si accorse di aver trattenuto fiato. La Signora era magnifica. Una belva in procinto di sbranare la sua preda. Selvaggia e implacabile. Fiutava l’odore del sangue. Erano parecchi minuti che il giovane uomo taceva. Il libraio scrutava la sua anima in cerca di risposte. Voleva essere certo. Non poteva permettersi alcun errore. I suoi poteri erano preziosi per le Signore. Colui che lo avrebbe sostituito avrebbe dovuto essere uno schiavo perfetto come lui. C’era ancora tempo. Ma la sua era una vocazione. Un carisma limpido e raro come un diamante nero. Se nel ragazzo brillava anche solo una punta del suo stesso carisma ora l’avrebbe colta.
Il primo colpo arrivò netto. Se l’era aspettato. Proprio lì. Sui coglioni. Sussultò ma si costrinse a non emettere un gemito. Non gliel’avrebbe reso facile. Colpì ancora e ancora. Una sequenza ininterrotta di colpi. Dopo il ventesimo smise di contarli e si permise di emettere un gemito. Basso. Gutturale.
Contemplava le natiche e il ventre del ragazzo arrossate dai suoi colpi. Un gran bello spettacolo. Ma naturalmente non era che l’inizio. Non aveva fretta. Il ragazzo avrebbe implorato. Strattonando il guinzaglio lo costrinse ad alzare la testa e con un colpo secco gli ficcò la cappella del dildo viola in bocca.
Gli occhi gli brillavano. Il piccolo bastardo era davvero schiavo nell’anima. E forse nemmeno lui si rendeva conto quanto. Spinse più a fondo il dildo. Il ragazzo succhiava avido come se non avesse mai fatto altro. Come se fosse nato per quello.
Gli chiuse la gola con la cappella. Sentirlo soffocare intorno a quel cazzo. Il suo cazzo. Le mandava brividi di eccitazione a sciogliersi tra le cosce bollenti.
“Ahhhhhhhhhhhhhhh. Si. Signora. Si” Non gli aveva lasciato tregua. Stava ancora cercando di tornare a respirare normalmente quando lei glielo aveva messo nel culo. Un solo colpo. Secco. Violento. Si era sentito lacerare tutto. Anima. Corpo. Cuore.
Il ritmo di lei era in continuo crescendo. Lo martellava. Gli teneva le gambe spalancate e appoggiate sulle sue spalle. Era completamente inerme. Totalmente offerto a lei. E poi era iniziata la vera punizione:” Cosa sei tu? Avanti rispondi bastardo… e bada di non sbagliare. Sarebbe peggio per te…”. La voce di lei era dura. Lui si era sentito rimescolare. Come se lei, invece che insultarlo lo avesse accarezzato e, aveva risposto la voce rotta, ansimante. Il dolore che. invadendogli il cervello. diventava piacere squisito: “Sono una troietta. Una troietta in calore Signora”. “ E a chi appartieni piccola troietta disobbediente? A chi appartiene questo culo rotto? La voce della Signora era leggermente affannata mentre i colpi diventavano sempre più incalzanti e la fica le pulsava ad ogni affondo un po’ di più.
“A lei Signora. Appartengo solo a lei. Sono la sua troia. Creata per il suo piacere”.
Cazzo il ragazzo ne aveva davvero di fegato. Il libraio sedeva compiaciuto dietro lo specchio, celato da un bellissimo quadro di Frida, che ornava la parete di fronte al tavolo della stanza delle torture. E così non si era sbagliato. Aveva trovato il suo erede. L’animo del ragazzo era traboccante del bisogno di servire. Il libraio si concesse un dito di prezioso cognac mentre si accingeva ad assistere al gran finale.
“Spalanca le cosce per la tua Signora, troia. Ora ti sfondo questo culo divino che ti ritrovi. Ti spingo il cazzo fino in gola e ti riempio l’anima…”
Un minuto prima di essere travolta da un orgasmo devastante la Signora trovò al forza di stringere la mano sul suo frustino e mentre esplodeva bagnando le natiche arrossate, diede un solo colpo secco sui coglioni gonfi del giovane uomo che schizzarono sborra ovunque.
“Ecco gusta il tuo sapore schiavo. Il sapore della tua appartenenza. A me.”
Sganciato il dildo viola la Signora strinse la cintura della sua gonna di seta rapidamente e, mentre, le ultime note della cavalcata delle valchirie sfumavano, uscì dalla stanza. Il libraio le si fece incontro sollecito, porgendole la giacca di visone di cui lei si era liberata rapidamente appena arrivata. Accendendosi un corto sigarillo la Signora uscì nel nordico tramonto autunnale di quella città che amava.
Il libraio prese il suo barattolo di arnica, il canovaccio di lino bianco e scese rapidamente le scale verso la camera delle torture.
Il giovane giaceva sul tavolo. Sfinito. Gli occhi chiusi. Non aveva nemmeno provato a liberasi. Non sarebbe servito a niente. Ormai la Signora aveva marchiato per sempre la sua anima. Nessuna catena reale lo avrebbe legato più di quel marchio.
Il libraio depose il suo fardello sulla panca accanto al tavolo e in perfetto silenzio sciolse i polsi del giovane e sganciò il guinzaglio.
“Ecco ragazzo lì trovi tutto ciò che serve ora al tuo corpo. Per la tua anima, ti aspetto di sopra, davanti ad un buon bicchiere di cognac. Abbiamo molto di cui discutere. Davvero molto”.

mercoledì 24 ottobre 2007

SAPORI

Distillato di terso autunno
Fragranza della memoria
Programmaticamente inatteso
Lampeggiare di parole gustose
Intrecciarsi di intenzioni piccanti
Lento sobbollire di emozioni
Nel ticchettare allegro dei tacchi sulle scale
Sguardi profumati di caffè nel rumore sotterraneo
A latitudine nord
Languida carezza di lingua ad assaggiare
Schiudersi di labbra ornate di intima essenza
Assaporiamo sentore di muschio e fragole mature
Sorridono i tuoi occhi mentre mi allontano
Ondeggio allegra su tacchi di camoscio viola
La prossima volta….

Porterò a termine ciò che ho iniziato ieri….

giovedì 18 ottobre 2007

Di seta e cannella

Consistenza di seta.
Profumo di cannella.
Liscia.
Avvolgente. Calda nella tua fluida essenza.
E profumata. Si, profumata di vita e cucina.
Odorosa di frutti maturi e di vini preziosi.
Nuda.
Sporca di farina e risate.
Danzante su tacchi affilati come coltelli.
Armonica nei gesti. Dosa. Mescola. Frulla. Impasta.
La trama sottile della pelle accesa dal calore del forno
e, del mio sguardo.
Riflessi di rubino prezioso guizzanti tra i capelli.
Silenziosa nel tuo affacendarti armonico sulle note di Cohen. Non posso più ascoltarle. Ora. Non più.
Viva. Cangiante nell’umore mutevole degli sguardi.
Felice, forse. Questo non mi verrà più dato di saperlo. Lo so. Sorridente, in un baluginare di denti bianchissimi,
mentre mordi, con fame sincera, una mela.

Magica, nella sapiente arte delle tue mani,
che miscelano farina, zucchero e uova con antica sapienza di femmina.
Femmina già. Nessuna più di te. Nessuna come te. Dopo.
Canticchiante su note basse, le tue preferite, quei versi struggenti:
” And you want to travel with him, and you want to travel blind,
snd you think maybe you’ll trust him, For he’s touched your perfect body with his mind”.
Un po’ Susanne.
Anche tu.
Poetica puttana.
Madre e amica.
Ritmico guizzare della braccia nello scorrere ipnotico del mattarello sulla sfoglia.
Sottile velo ad accogliere mele caramellate e ricordi.
Dita intrise di zucchero. Leccavo.
Concentrato in quel gesto famigliare. Fanciullesco.
Piacere a scorrere come acqua sulla mia pelle.
Attenta nel disporre nel nido caldo della sfoglia in perfetta simmetria
quelle sottili fette di croccante mela zuccherosa.
E poi il profumo.
Ancora e Ancora.
Inebriante. Indimenticabile. Perfetto.
Il rompersi di bastoncini nel mortaio.
Il tuo pestare allegro. Quasi rumore di nacchere.
E l’aroma a spandersi.
Avvolto intorno al tuo corpo di seta dorata.
Fuso con la fragranza spezziata della tua pelle.
Spargevi quella polvere rosseggiante con generosa abbondanza.
Cromatico gioco della memoria.
Non so più ora se le tue labbra fossero dello stesso rosso.
Chinata.
Torri perfette le tue gambe,
coronate dal quel trofeo rotondo, morbido,
lievitato come sfoglia burrosa.
Un colpo del fianco e inizia il conto alla rovescia.
Allora mi guardavi.
Uno sguardo limpido, diretto ad avvolgere me.
Il tuo carnefice.

lunedì 15 ottobre 2007

ASCOLTANDO LADY E.



















Interno Giorno. Un sole autunnale riscalda la cucina. Il tavolo è sgombro. Il silenzio rotto da ansiti. Voce di donna. Respiro di uomo. Baluginare di arancio tra le cosce dorate. Dondolare elastico di sostegni metallici. Calore. Umidità. Fame…

Sei il mio respiro, la mia voce
Sei la mia stella, la mia luce
Sei il mio maestro, la mia guida
Sei il sangue che tiene viva
Sei il mio compagno, sei il mio amore
Sei il mio biglietto per il sole
Sei la mia luna appesa in cielo
Sei il mio universo nero

Insolito biancore di scrigno. Mani di donna. Lingua di uomo. Intrecciarsi di parole sussurrate nel cuore palpitante di carne. Condimento prezioso. Pinzimonio ricco e fragrante. Lento assaporare la miscela inebriante di sapori. Morsi…

Sei il mio incubo, il mio sogno
Sei la bellezza di cui ho bisogno
Sei la speranza, sei un'amica
Sei la caduta e la risalita
Sei la mia donna, la mia padrona
La mia regina, la mia signora
Sei la mia serva, la mia troia
Sei il mio piacere, la mia gioia

Sapore condiviso. Convivio violento. Mescolarsi di umori nella bocca d’uomo. Urla di donna. Acuto espandersi di musicale espressione. Cigolare metallico di sottofondo. Crescendo insaziabile. Fiero antipasto di femminile godere. Sete…

Sei il mio rifugio, il mio porto
Sei il mare calmo che mi ha accolto
Sei il paradiso personale
Sei il mio riparo dal male
Sei il fuoco che libera la mente
Sei il grande salto senza rete
Sei il mio carnefice, il mio boia
Sei il grande abbraccio che consola

Lampeggiare corvino all’estremità del tavolo. Intrecciarsi di sguardi offuscati. Labbra bagnate di piacere e granelli di pepe. Tumefatta terrina di carne rosata. Lento lambire gocce di dissetante paradiso. Sorridere di uomo. Sospirare di donna. Quiete…

Sei peccato e perdizione
Sei la salvezza e la redenzione
Sei la mia complice, il mio aiuto
Sei il mio sentiero che ho perduto
Sei il grande vortice nel nulla
Sei il desiderio e la paura
Sei il mio destino, la mia sorte
Sei la mia vita, la mia morte

Appetiti stimolati. Anime morse dalla voglia. Ultimo ondeggiare del bianco scrigno.
Intrecciarsi di sguardi limpidi e parole distese. Profumo di uomo. Sapore di donna. Vermiglio scorrere di spumeggiante liquido. Placarsi di primitive necessità. Ora…

In ognuno di noi c’è una Lady E.

mercoledì 3 ottobre 2007

NON POSSO....

Ouverture
Io: ... a dire tutta la verità avevo iniziato a scrivere una cosa molto differente ma poi ho deciso che non era giusto mettere in piazza il tuo star male per dirti delle cose pubblicamente.
Tu: a dire il vero pensavo di leggere quello che poi non hai scritto...

ORA


Non posso lasciarti solo.
Non ne sono capace.

Non posso tacere

Non posso frenare la tenerezza
voglio avvolgerti in essa come in una coperta
Non posso non sentire il tuo dolore
come se fosse mio
Non posso smettere di colmare le distanze

in ogni modo possibile

Non posso smettere
proprio non posso smettere

di sentirti in me ogni istante

Non posso aspettare in silenzio

vorrei tanto esserne capace

Posso solo andare oltre il pudore

per dirti che ci sono.

In ogni momento.

E per ogni cosa.

TUA


Decifrando versi



Ne ho pudore. E' l'unica cosa per cui ne ho. La sola. Il dolore fisico e emotivo è un vecchio compagno per me. Qualcuno che ho frequentato a lungo e da età precoce. Ne conosco sfumature, articolazioni , scatti improvvisi e costanti sottofondi. Ma è privato. In questo sono una belva davvero. Mi isolo per leccarmi le ferite. Come hai fatto tu . Ti capisco davvero. Mi fa male. Ma comprendo. Tutto. Persino l'insofferenza per la dolcezza mia e altrui che ti circonda. Non ti serve. Ti ricorda che sei debole. Stanco. E tu ODI sentirti così. Vuoi stare solo per recuperare. Per abbandonarti alla sofferenza. Lasciartene attarversare senza testimoni. E allontanarla. Per sempre. O solo fino alla prossima volta.

martedì 2 ottobre 2007

DESIDERATA

Pronta
Vigile. Attenta. Sicura.
Adesso lo sono.
Tu hai fatto in modo che imparassi ad esserlo.
Attenta ai tuoi fremiti.
Sicura dei miei capricci.
Vigile sul crinale della follia appassionata.
Equilibrista del doloroso paicere.
Pronta.
Decisa. Tesa. Paziente.
Adesso mi sento così.
Evolversi dolce di violento sentirsi.
Tesa nel ricamarti vermigli ringraziamenti.
Paziente nel cogliere l'arco offerente della tua schiena.
Decisa a portarci un passo oltre il crinale.
Pronta.
Avverto il calore del cuoio intrecciato nelle mani
L'odore del sangue avvolgerci.
Rapace solennità dell'attimo.
Celebrazione di gemiti e sangue
Defluire lento di dolorante piacere
Mi disseto alla tua fonte rosseggiante
Il tramonto scolora nella notte
Avvinti in armonico calore.
Pronta.
Adesso lo sono.
Lasciamo che accada.
Domani.

IMPASTO DI SANGUE E PAROLE

Ho voglia
Antipasto di parole di femmina
Attendo.
Vigile sentinella a caccia.
Sorridi scuotendo lacrime di pioggia.
Sorrido pregustando il pasto..
Ovattata penombra.
Bianco luccicare di corde
Serro il guinzaglio alla tua voglia
Ruvide carezze di cane tra le cosce
Contorcersi silente rotto solo da ansiti
I miei. I tuoi.
Fibie di cuoio nero mi avvolgono i fianchi
Entro.
Decisa. Sicura. Impietosa.
Il calore della tua bocca mi avvolge.
Spalancarsi insolito di cosce.
Il buio cinge le nostre anime
Ghermisco. Affondare di unghie in curve dolci.
Siamo puro sentire
Ti prendo.
Mi hai.
Ancora....

IL TRAM


Il mantello amico della notte l'avvolgeva nel suo freddo stellato. Il rumore dei suoi tacchi sull'acciottolato di quella stretta via del centro riempiva il silenzio del ritmo dei suoi pensieri. Era sola. Condizione che conosceva bene e, che amava in fondo. Del resto doveva fare una scelta. Una scelta che avrebbe cambiato le cose. Spostato gli equilibri. E doveva farla prima che l'alba arrivasse a scacciare le ombre che amava. Conosceva la direzione. Aveva valutato le conseguenze. Lo avrebbe avuto. Il sangue le cantava nelle vene al solo pensiero. Era la prima volta che le capitava di desiderarlo. C'erano stati altri. E altre. Era naturale per lei. Il suo carisma la guidava nella scelta. Chi sceglieva di appartenerle aveva sempre qualcosa di speciale. Ma lui, quello strano ragazzo dagli occhi cangianti. Lui era stato diverso. Particolare. Da subito. E lei aveva saputo che lui l'avrebbe spinta oltre se stessa. I limiti non avrebbero più avuto senso. Ecco, perchè ora camminava sola nella notte. Si era trovata a desiderare ciò che mai pensava sarebbe arrivata a volere. Un segno. Il segno di lei. Sulla pelle di lui. Non doveva essere un segno qualsiasi. Non lo avrebbe tollerato. E neanche doveva essere temporaneo. Nulla in quello che lui le faceva provare era tale. Lei lo voleva con una ferocia senza requie ne fine. Non trovava pace. Se non quando le urla di lui le riempivano l'anima e il calore del suo corpo offerto l'avvolgeva. Era ferma adesso. La luce di un lampione molato l'avvolgeva facendo risplendere i suoi corti capelli corvini e accendendo di mille riflessi lo splendore amaranto del suo vestito di seta. Mentre un brivido l'attraversava al ricordo del calore impertinente della lingua del ragazzo tra le sue cosce aperte si era stretta nella stola di visone. Era fuggita dall'ennesima festa di Tina. Era stanca di trovarsi a ripetere sempre gli stessi gesti. Ormai i corpi efebici che l'amica le buttava costantemente tra le braccia durante le sue famose "corti amorose" non le suscitavano più nulla. La sua mente era concentrata sul ragazzo. Meglio il giovane uomo. Come senz'altro lui sentiva di essere. La cacciatrice in lei anelava ad azzanargli il collo. Voleva il sangue. Lo sferragliare improvviso in fondo alla via di quella città del nord che da sempre lei sentiva come casa la riscosse. Eccolo. Bene sarebbe arrivata prima. Non aveva voglia di cercare una carrozza nella piazza deserta. E l'auto che il conte le aveva regalato era rimasta a Parigi. Lì nella sua città voleva camminare e ripeter i gesti che per tanto tempo avevano fatto parte della quotidianità. Sarebbe andata nell'unico posto dove sapeva avrebbe potuto trovare le risposte. Il tram si era fermato. L'autista la guardava incuriosito.E forse anche un po’ spaventato. Cosa ci faceva una signora come lei, sfavillante di fascino e diamanti nel cuore della notte sulla sua strada che portava verso il vecchio quartiere degli artisti, li dietro l'Accademia. Era salita sorridendo all'uomo alla guida. Si era seduta infondo. I vecchi sedili di legno tirati a lucido l'avevano accolta. Aveva bisogno di bere e di fumare. Non necessariamente in quell'ordine. Il tram era deserto. La città scorreva fuori dai finestrini. C'era tempo. Ancora ne aveva a disposizione. Accavallò distrattamente le gambe. Lo spacco tra le frange di jais che ornavano il suo vestito si aprì offrendo all’autista una visione delle sue cosce dorate sopra l’orlo delle calze di seta nera. Si stava chiedendo dove fosse il ragazzo adesso. Ne aveva voglia. Anzi fame. Ma prima di abbandonarsi ai suoi capricci doveva prendere uan decisione. Solo che il pulsare umido sotto il raso delicato delle sue culotte, le ricordava che avrebbe dovuto fare in fretta. Presto la fame sarebbe diventata incontrollabile. Erano in prossimità di una fermata. Il tram stava rallentando. Al di là delle porte a battente nella panombra appena rischiarata dal cerchio di luce di un lampione poteva scorgere una figura maschile avvolta in un ampio mantello nero. Il profilo del volto le era famigliare. Ma non sapeva spiegarsi perchè. L’uomo salì deciso i gradini della rampa di accesso al tram e si diresse ad ampi passi verso i sedili infondo. Quelli dove si trovava lei. L’autista osservando l’avvicinarsi dell’uomo alla signora sorrise tra se. Sembrava un falco che si prepari a ghermire la sua preda. Ma qualcosa gli diceva che quella signora non era affatto la colomba innocente che poteva sembrare. Man mano che osservava l’elastica armonia dei passi dell’uomo che si avvicinava una certezza si faceva strada in lei. Non lo aveva ancora visto in volto. Ma era sicura di non sbagliarsi. La sua fica non si sbagliava di certo. Aveva preso a pulsare violenta quando l’uomo aveva riempito con il suo odore di giovane maschio lo spazio ristretto della carrozza. Era furbo. Molto furbo. E un abile giocatore d’azzardo. Del resto di questo viveva. Almeno in parte. Di questo e della soddisfazione delle signore di classe come lei. Ma non gli avrebbe permesso di capire che lo aveva con certezza riconosciuto. Lo avrebbe lasciato nel dubbio. L’arroganza della sua presenza lì non poteva essere che punita. Severamente. Così si alzò e afferando i baveri del suo mantello lo spinse contro la parete di fondo del tram. Curva e vetrata sembrava una piccola alcova mobile Le unghie laccate affondarono nel culo sodo del giovane mentre la bocca di lei seguiva il contorno netto della sua mascella. La stola della donna cadde a terra rivelando i seni rigogliosi coi capezzoli duri sotto lo strato sottile di seta che li ricopriva. Lo sguardo del giovane lampeggiò sotto la maschera nera che gli celava la parte superiore del volto. Lei sorrise facendo scivolare languida una mano sull’inguine di lui. Strinse. Quel cazzo duro, che le rivelava più di quanto il suo proprietario volesse. Strinse i coglioni gonfi di voglia e pronti a soddisfare la sua sete. Ogni sua sete. E affondò i denti nel collo di lui. Ansimò. Un brivido di doloroso piacere ad attraversagli il corpo. A far pulsare il cazzo nella stretta di lei. Ma non articolò verbo. La donna non potè trattenere un moto di orgoglio per la forza di lui. Ma lo avrebbe comunque piegato. E lo avrebbe fatto su quel tram. Davanti agli occhi curiosi dell’autista. Gli slacciò il mantello. Era certa non portasse biancheria sotto i pantaloni aderenti dell’impeccabile smoking che riempiva alla perfezione in tutti i punti giusti. Slacciò i bottoni rapida ed estrasse il cazzo. Lo costrinse con la forza del suo sguardo a sollevare le braccia per afferrare le maniglie di cuoio che pendevano dalla sbarra fissata al tetto del tram. Dalla piccola borsetta ricamata che giaceva sul sedile di fianco a lei la donna estrasse il bocchino di lacca nera con cui era solita fumare le sue sigarette francesi. Lui sapeva che provocandola in quel modo, avrebbe scatenato la belva selvaggia che sempre rimaneva in allerta dentro di lei. Adorava quella belva. La forza della dolorosa passione che sapeva scatenare in lui. Il violento desiderio con cui lo avvolgeva. Ma ora mentre lei terminava di calargli i calzoni e passava con lentezza insopportanile le unghie sul suo culo si chiedeva se lei avesse capito. O se per lei fosse indifferente la sua identità. Era tentato di strapparsi la maschera. Ma in questo modo lei avrebbe vinto. E lui non poteva permetterlo. Non così almeno. Non stavolta. Così protese il culo nudo e si offri alla punizione che sarebbe arrivata. E che lo avrebbe fatto godere come la troia che sapeva di essere. Quella che solo lei era riuscita a scatenare oltre tutte le sue inibizioni. Il colpo fu impietoso. Strinse, fino a farsi sbiancare le nocche, le cinghe di cuoio. Quel dannato affare aveva delle piccole incisioni taglienti sulla superficie. Gli stava scorticando le chiappe. I colpi cadevano ritmici. Solo il leggero ansimare di lei rivelava quanto fossero forti. Ormai doveva avere il culo coperto di rivoli di sangue... Aveva sempre più sete. Il dannato bastardo non aveva ceduto di un millimetro e il tram ormai stava arrivando a destinazione. Doveva piegarlo. L’avrebbe fatto cadere in ginocchio e poi sarebbe sparita nella notte. Sorridendo tra se la donna afferrò saldamente il bocchino tra le mani e con un colpo secco lo infilò nel culo del giovane. Urla finalmente. Subito soffocate ma urla e lacrime sotto la maschera di raso nero. Era forte. Pieno di orgoglio e di passione. E nonostante il dolore lancinante, che sicuramente sentiva, era rimasto in piedi. Barcollante. Sanguinante. Ma in piedi. Iniziò a muovere il bocchino nel culo del giovane. Impietosa. Rude. Violenta. Lo avrebbe fatto godere. Il cazzo svettava sempre più teso. Mentre il ritmo con cui penetrava tra quelle natiche sode diventava sempre più intenso, iniziò a leccare il sangue. Leccava lenta. Con languida dolcezza in contrasto solo apparente con al brutalità della penetrazione. L’uomo aveva il respiro spezzato. Le ginocchia ormai faticavano a reggerlo. I palmi sudati delle mani perdevano presa sulle maniglie di cuoio. Quando la lingua della donna arrivò a leccare il sangue dal solco del suo culo e il bocchino entrò in tutta la sua lunghezza dentro di lui. Esplose. Cadendo in ginocchio. Lo sperma schizzò sui vetri appannati del tram. La donna guardò l’autista. Uno sguardo breve ma chiarissimo. Un comando. L’autista frenò e aprì le porte davanti a lei. Afferrata la stola. La donna sparì nella notte. L’autista percorse le poche centinaia di metri che lo separavano dal capolinea a velocità sostenuta senza riuscire a staccare gli occhi dal giovane seminudo infondo al suo tram. L’uomo aveva posato con religiosa attenzione il bocchino sul sedile di legno davanti a lui. Si era rapidamente rivestito. E ora accarezzava con la mano quell’oggetto pregno del suo dolore. Intriso dei suoi sapori. Quelli che aveva donato a lei. La voce dell’autista ruppe il silenzio irreale di quella strana notte di inizio autunno. „Capolinea“, Accademia di Brera, Capolinea“. Il giovane sorrise e infilando il bocchino dentro la tasca della sua giacca da smoking. Proprio lì, vicino al cuore. Scese rapido dal tram. Dirigendosi verso l’angolo della strada. La luce di un lampione illuminava a tratti l’insegna del negozio verso cui il giovane uomo si muoveva con passo sicuro. Mentre l’uomo armeggiava con la serratura della robusta porta di legno massiccio l’autista dirigendosi verso la bicicletta che aveva lasciato nel deposito di fianco al capolinea si rese conto di conoscere quel giovane uomo. Non era possibile. Non poteva essere. Mai avrebbe creduto che il giovane distinto e colto con cui scambiava quattro chiacchiere durante le sue pause, potesse celare simili abissi. Il libraio. Ancora non poteva crederci. Il giovane uomo del tram era il libraio. Il suono fastidioso del campanello del negozio lo riscosse dai suoi dolorosi ricordi. L’anziano signore alzò lo sguardo e sorrise. Con la mente ancora persa in quell’inizio autunno del 1920 . Eccone un altro. Li invidiava. Non poteva farne a meno. Loro potevano ancora servire. Lui non più ormai. A lui restavano solo i ricordi. Avrebbe aiutato anche questo a capire la rara fortuna del suo destino. Servire. Lei. La Signora. Portarne il marchio. Indelebile. Per sempre.

Ricomincio da qui...

Rapsodia in crescendo
Fantasie violente
Appagati progetti del desiderio
Impasto di sangue e parole
Notte condivisa, amica comune
Mani che scivolano calde su corpi dolenti
Frullati di frutta e ironia
Morbida spugna e dolce abbandono
Percorsi. Accordi. Melodie.
Controcanto nel sonno.
NOI