Gioco di specchi
Gesti oscenamente ripetuti
Sguardi
Insistito osservare da insolito punto di vista
A fuoco il piacere disciolto in fumosi contorni
Labbra e dita avide nell’offrire perversi sentieri
Insolito inseguirsi di parziali visioni
Guizzare eccitato
Rifrazione vogliosa
Mi sciolgo all’unisono con la bagnata esplosione
Banchetto di meretrici dell’anima
Il nostro
lunedì 21 aprile 2008
sabato 19 aprile 2008
Oscenamente femmina
Scopata. Riempita violentemente. Colmata in ogni anfratto. Devo sentirmi femmina. Il mio sangue grida il bisogno osceno che agita la mia anima e colora le mie cosce. Mi guardo allo specchio. Vorrei mi bastasse quel pugno che ritmicamente colma la mia …america. Ma non basta. Anzi. Pulso contro le mie stesse dita. Insoddisfatta. Smaniosa. Mi manca l’aria. La stanza mi soffoca. Devo uscire. Andare per le strade. Vagare e fermarmi. In attesa evidente della preda. A caccia bella signora. E’ giunta al stagione. Hanno aperto le gabbie. Oddio deliro. Non riesco a mettere in fila un pensiero lucido con l’altro. Ondeggio in preda ad un languore che mi spossa. Cerco nell’armadio una vecchia gonna nera al ginocchio. La camicia bianca, sbottonata fino al solco dei seni, e lui, un bustino di vernice nera, che ho recuperato su una bancarella di Piccadilly Circus, anni fa. Mai messo. Ma oggi è il giorno giusto. Tacchi a spillo, giacca di pelle e volo fuori. Niente auto. Cammino ondeggiando sui tacchi. Ad ogni falcata sento le cosce sfregarsi e la fica rispondere pulsando. Devo trovarlo in fretta o non sarò più capace di discriminare.
Mai che ce ne sia uno a portata di mano, quando davvero ti serve. Cazzo. Non riesco a pensare ad altro. La cappella rosea gonfia di voglia. L’asta ondeggiante. La durezza pulsante tra le mie labbra. E poi quello sbattere ritmico, violento, senza cura e attenzione. Il suo peso addosso. Il suo odore che mi avvolge, i denti sul collo e la voce che mormora nell’orecchio quella parola…Un rivolo scivola lento lungo la mia coscia nuda, resisto a stento alla tentazione di sollevarmi la gonna e assaggiarlo.
Il clito pulsa prepotente. Ne ho bisogno. In questo momento ho tutta la più profonda comprensione per quanti in preda ad una crisi di astinenza compiono i gesti più assordi. Al bisogno non si comanda. Io al mio nemmeno ci provo. Raggiungo una vecchia pasticceria del centro, locale noto per la fauna a pagamento, che vi circola. Ma anche se potrei e, a volte, l’ho fatto non è questo che sto cercando stavolta. Lo oltrepasso mi dirigo, svelta, verso piazza Scala. Mi siederò davanti ad una coppa di crystal nel foyer di quel vecchio albergo pieno di charme. Devo riordinare le idee. Studiare un piano. Trovare alla svelta la mia preda. Il cameriere non riesce a staccare gli occhi dal mio culo mentre lo precedo al tavolo. Ondeggio, seduttrice oscena della mia stessa voglia. Mi siedo e mi attacco al bicchiere di crystal come se davvero potesse placare la mai sete. Illusa. Mi guardo intorno da dietro la coppa di cristallo. Non c’è un solo maschio. Tanti piccoli insignificanti omuncoli incravattati o meno, ma nemmeno un maschio. Il clito ripulsa tra le mie cosce accavallate quasi potessi correre il rischio di dimenticarmi di lui. Non posso arrendermi. L’america non funziona. Ho bisogno di cazzo. Lascio una banconota sul tavolo e esco. Il sole mi accarezza. Questa città puttana a primavera fiorisce come un’orchidea, offrendosi sfrontata in tutte la sua riposta bellezza. Cerco una sigaretta nella borsa mentre procedo rapida verso i giardini. L’accendo e aspiro avida. La panchina all’ombra della rilucente statua del vecchio Montanelli è la mia preferita. Il fascino della lettera 22, probabilmente. Mi siedo. Il punto di osservazione è perfetto, accavallo le gambe. Chiunque passi ha una visione precisa delle mie…intenzioni. E ne passano diversi. Sono quasi decisa a tornare alla pasticceria e a mettere fine a questo tormento, quando…
Dalla curva del viale sbuca un ragazzo, perché è questo, solo un ragazzo. La maglietta sudata gli aderisce al torace. Il suo odore di maschio mi stordisce. I nostri occhi s’incrociano. Mi spoglia con lo sguardo, quasi compiaciuto di quello che vede. Fottiti penso anzi meglio vieni a fottermi. E’ pieno giorno. Bambini vocianti si spargono tutto intorno a noi sui prati. Voci di mamme e di nonne colorano l’aria profumata. Le ignoro. Mi avvicino alla mia preda. Lenta. Il ragazzo si è fermato. Ha una posa da sbruffone, provocatoria, il bacino proteso in avanti sotto i pantaloni della tuta che gli cadono sui fianchi snelli, scoprendo quella striscia di pelle abbronzata in cui non vedo l’ora di affondare le unghie. Lo afferro per i glutei e lecco un rivolo di sudore che gli cola sulla gola. Il clito si contrae spasmodico. Un calore vischioso scivola lungo le mie cosce. Il ragazzo infila prepotente una mano sotto la mia gonna. Non riesco a pensare. Sento. La ruvidezza della corteccia dell’albero contro cui mi ha spinto. La forza maschia delle sue mani, che affondano nel mio calore. Pulso contro quelle dita che mi dilatano senza riguardo alcuno. Il tacco affonda nel suo polpaccio. Mi guarda negli occhi. Non abbiamo ancora detto una parola, non che ce ne sia bisogno. Gli sguardi parlano con tutta l’eloquenza del caso. Sostengo il suo mentre gli faccio scivolare il cazzo fuori dalla tuta. Mi riempie la mano. E’ un attimo. Ora la corteccia scortica la pelle delicata dei miei capezzoli mentre l’uccello del ragazzo affonda nella mia carne avida. Assecondo il suo ritmo violento. Le sue mani artigliano i miei fianchi rotondi. Il mio culo è incollato al suo bacino. Il clito sfrega contro le palle gonfie. Godo. Pulso stringendolo dentro la mia fica fradicia. Ancora e ancora. Ansima nel mio orecchio quella parola…Troia: strano, come cinque lettere possano racchiudere un mondo di voluttuoso piacere. Esplodo mentre mi tappa la bocca con un bacio violento. Mi morde le labbra alla ricerca del sangue. E mi riempie. Stringo i muscoli del bacino mentre i fiotti mi colmano di calore vischioso. Rimaniamo senza fiato, abbandonati contro la corteccia di quel l’albero che chissà quanti incontri così ha visto. Il ragazzo sfila un fazzoletto candido dalla tasca della tuta e me lo passa tra le cosce. Un sussurro: “Lo conserverò!!”. Lo afferro per l’elastico della tuta e gli infilo nell’inguine il mio biglietto da visita, che ho pescato alla rinfusa dalla tasca della giacca.
“Au revoir”. Mi allontano, guardando l’orologio, è tardi. Devo ancora andare a casa a recuperare l’auto e correre a prendere il mio cucciolo all’asilo. La città intorno a me ritorna a fuoco. Sorrido.
giovedì 24 gennaio 2008
BRANDELLI DI ME
Come su un foglio strappato. Imbratto le righe con brandelli di anima. Vomito parole. L’inchiostro si spande mio malgrado sul biancore di questo foglio rubato.
Lampi di ricordi. Sensazioni, che vorticano ancora nello stomaco, incapaci di quietarsi. Emozioni a fil di pelle. Nervi e piacere. E ovunque calore. Calore nella memoria di volti sorridenti a tarda notte, in una camera d’albergo, senza divano. Camomilla e coca cola mentre le parole fluiscono leggere nella loro intensità.
Calore, in quel ferro di cavallo allargato, nella bellezza di quei volti seduti intorno. Calore nell’amalgama spontanea di persone inesorabilmente differenti. Spontaneo chiacchiericcio. Cercavi una lacrima dolce. Non l’hai avuta. Ma io ho pianto. La mia anima ha stillato sudore salato. Non puoi non averlo visto. Mi ha regalato le mie parole in confezione deluxe. Curate, limate, trasformate da diamante grezzo in un gioiello montato in platino e sfaccettato di mille riflessi. E’ stato come se mi avessi pugnalato. Mi hai lasciato lì nuda. L’anima esibita. Senza fiato. Ne parole. Non ero commossa. Ero colpita dalla forza del sentimento. Dolorosa estasi dell’anima.
Lo stomaco si contrae. Spasimi successivi. Ancora lampi. I ricordi colano fuori.
La voce di Amy. Lo scorrere caldo di mani intrecciate. E’ passato così tanto tempo. Non credevo nemmeno di ricordare. Di essere ancora capace. E invece quella bocca morbida. Le curve intriganti di quei seni bianchi. I piccoli capezzoli ritti sotto i miei denti. La sua mano che affonda tra le mie cosce. E le tue mani che scorrono ovunque sulla mia pelle ambrata. Quietando ciò che impossibile quietare. Divoro la bocca di quella donna generosa e bellissima. E in ogni istante ti sento. Intorno a me. Fuso nel calore che cresce. Nella voglia, che mi contrae la fica. Mentre dita mescolate vi penetrano. Doveva essere un massaggio. E’ diventato un attimo di perfetto, inaspettato, rutilante piacere nel caos di un giorno qualunque.
Il perlage del franciacorta colma i bicchieri di intenso sapore. Il vino scorre lieve in gola mentre seduti intessiamo una trama di parole fitte e vere. Piacere condiviso.
Ancora una volta.
giovedì 10 gennaio 2008
40 ANNI COSI'....
Tinto Brass sostiene che la midi agè.. quell'età compresa tra i 38 e i 45 anni sia l'età migliore di una donna. Quella in cui risplendere senza pudori o false modestie.
Mai avute ne le une ne le altre ma risplendo in effetti...
In questo film la Sandrelli aveva 40 anni, guarda caso, ed era burrosa, morbida traboccava erotica seduzione ad ogni passo...
Così tanto per farmi gli auguri...
vi regalo questo video.
Del resto quelli che se ne intendono dicono le somigliiii
giovedì 27 dicembre 2007
PERLE
Osservo i fili di perle mescolati in quella vecchia cappelliera. Perle colorate e brillanti. Opache e trasparenti. Spiccano sul fondo di velluto scuro. Scrigno accogliente e malizioso. Accarezzo lieve il primo filo. E sgrano il rosario osceno dei miei desideri. Un filo per ogni colore. Un colore per ogni voglia. Una voglia per ogni senso. Un senso per ogni inebriante sapore del tuo corpo. Declino appassionati versi. Cerco insoliti fraseggi. Armoniche divagazioni sgorgano nello scorrere continuo di sferiche perfezioni sulla pelle calda.
Articolo rime. Tentativo di lenire dolore inflitto e ricercato. Musica. Nell'incontro sincopato di voglie e muscoli. Dolore e paicere. Fusi.
Perle bianche.
Candide come la voglia fanciullesca
che mi prende ora.
Passare quel filo tra le nostre bocche.
Recitare all’unisono il mantra della voluttà.
Labbra, denti, lingue
a lucidare la fredda rotonda consistenza.
Overture lieve di sonate barocche.
Perle gialle.
Calde di sole.
Luminose e armoniosamente rotonde,
come le curve dorate del mio corpo,
offerte al tuo sguardo.
Brama violenta e dolce.
Incanto dei sensi
nello scivolare lento di vesti.
Si sprigiona un sentore di bosco.
Intermezzo vivaldiano.
Perle rosa.
Chiare e scure.
Accese di riflessi cangianti.
Avvolte in spirali voluttuose intorno ai tuoi polsi.
Prigione preziosa.
Costrizione apparente.
Ricerco lenta il sapore congiunto.
Oscillo umide pieghe intorno a robuste cime.
Gioco.
Armonie notturne.
Perle blu.
Trasparenza nell’oscurità.
Articolo tensioni di pelle e cuore.
Sento armoniche variazioni del dominio.
Alternanza sublime
nello sciogliersi armonico di voluttà opposte.
Prendo. Do.
Unisono continuo.
Il piacere scivola come seta preziosa.
Perle nere.
Dolore sferzante.
Carne esposta.
Fremere di tendini.
Tensione.
Cerco il tuo dolore.
Esibisco la mia anima.
Paradisiaco inferno.
Penetro riposti anfratti.
Violo custoditi pensieri.
Lacrime colano su pelli fuse
nel calore dell’abbraccio.
NOI: APPARTENIAMO
martedì 11 dicembre 2007
La bocca della verità
Piove
su vestigia antiche e nuovi vincoli
Rumore di tacchi e spirali di fumo
A colmare silenzi che sanno di storia
Piove
Su memorie scolpite e ricordi ridenti
Stracciatele di vino e parole seducenti
Ad avvolgere di malia il tempo condiviso
Piove
Su note vibranti e alcoliche divagazioni
Rabbiose reazioni e istintive collocazioni
A saggiare la consistenza di muri e passioni
Piove
Su vetri appannati e pelli confuse
Rotti silenzi e libere emozioni
Ad inverare istinti accesi
Piove
Memento di lacrime sul proscenio
Piove
Sorrisi bagnati di noi
su vestigia antiche e nuovi vincoli
Rumore di tacchi e spirali di fumo
A colmare silenzi che sanno di storia
Piove
Su memorie scolpite e ricordi ridenti
Stracciatele di vino e parole seducenti
Ad avvolgere di malia il tempo condiviso
Piove
Su note vibranti e alcoliche divagazioni
Rabbiose reazioni e istintive collocazioni
A saggiare la consistenza di muri e passioni
Piove
Su vetri appannati e pelli confuse
Rotti silenzi e libere emozioni
Ad inverare istinti accesi
Piove
Memento di lacrime sul proscenio
Piove
Sorrisi bagnati di noi
mercoledì 21 novembre 2007
LEZIONI!!!!
Pioveva. Una fitta pioggia novembrina. Satura di gocce. Confusa nell’ultima nebbia dell’anno. Le era sempre piaciuto quel lento declinare del rosseggiante autunno nella decisa oscurità dell’inverno. Amava quel tempo. Bagnato di aspettative. Accesso di luci. Come lei. Stava cercando. Ancora una volta. Cercava una fantasia da incarnare. Una voglia da soddisfare. Un uomo da amare. Forse.
La pioggia scivolava lenta sulla tesa lucida del suo borsalino nero. L’impermeabile le accarezzava i fianchi mentre con ampie falcate percorreva quella vecchia stradina lastricata di ciottoli che portava al luogo dell’appuntamento.
Aveva scelto accuratamente quel posto. Leo aveva bisogno di una lezione. E lei… Lei dannazione aveva bisogno di lui. Sentiva quel bisogno crescerle dentro. Prepotente. Le toglieva il respiro. Le mordeva le viscere per farsi liquida ustione tra le cosce. L’avrebbe controllato per tutto il tempo che le sarebbe servito.
Quel luogo l’avrebbe aiutata. Era pregno di ricordi. Raccontava le tappe della sua esistenza. La sua evoluzione di donna. Per questo non aveva mai voluto separarsene. E la casa era ancora lì. Con i suoi balconi di ferro battuto. I suoi muri di mattoni, come si usava una volta, quei cortili interni, dove la vita giocava a rimpiattino col dolore. Era il suo rifugio. Il luogo dove anche nei momenti peggiori aveva potuto sentire di essere al sicuro. Protetta.
Sofia faceva scorrere lentamente le mani sulla morbida pelle del vecchio divano che aveva ereditato da sua nonna. Quello in cui bambina ascoltava rapita la voce di quella donna che tanto aveva vissuto narrare di pittori e musicisti, di ballerine e poeti.
Parigi. Un giorno ci avrebbe portato Leo. Gli avrebbe mostrato l’anima baldracca di quella città. La poesia violenta di certi suoi vicoli improvvisamente aperti su petite cafè di una bellezza struggente. Ma non era tempo ne di propositi ne di ricordi. Era ora di agire. Aveva poco minuti prima che Leo arrivasse e lo spettacolo iniziasse. Doveva organizzare la scena al meglio. Accese le molte candele sparse per la stanza. Le fiammelle calde gettavano una luce ambrata sul suo volto. Accendendolo di mistero. Fissò le tende di seta indiana, che dividevano la stanza da letto dall’unica altra camera del piccolo appartamento, ad un lato degli infissi di legno con delle corde. Lo stereo diffondeva le note seducenti della voce di Cohen. Toni bassi di ruggine e tabacco. Sofia sorrideva mentre una scia di vestiti andava a segnare un sentiero che Leo non avrebbe potuto evitare di compiere.
Leo era teso. Talmente teso, che non avvertiva nemmeno il battere ritmico della pioggia sulla schiena, mentre cercava il luogo, in cui Sofia gli aveva dato appuntamento. Il lampeggiare del suo cellulare lo aveva colto nel dormiveglia. Non si aspettava che lei scegliesse quel modo per richiamarlo all’ordine. Al suo ruolo. E a quello di lei. A ciò che lui le doveva. Ma in fondo non ne era davvero stupito. Quella donna era imprevedibile e crudele in un modo che continuava ad affascinarlo.
Ecco l’aveva trovato. Una vecchia casa di ringhiera. Piena di fascino e perfettamente ristrutturata. Tipico di Sofia. L’aveva costretto ad entrare nel suo territorio per battersi. E lui ovviamente aveva fatto il suo gioco. Sicuro che comunque fosse andata per lui sarebbe stata una vittoria. Ma ora iniziava ad avere qualche dubbio mentre saliva a due a due le rampe di scale che portavano all’appartamento di quella che ormai per lui era la sua compagna dell’anima. La sua signora. La porta era aperta. Leo entrò ancora incerto su cosa aspettarsi. Fiammelle di candele e quella dannata voce. Leo ancora non riusciva a capire cosa ci trovasse lei in quel tizio che sussurrava invece di cantare storie di puttane e poeti che poco avevano a che vedere con il loro mondo. Si spogliò non aveva ricevuto alcuna istruzione in tal senso. Ma non ne aveva bisogno. Le mutandine di Sofia che pendevano dal paralume nell’angolo erano un’indicazione chiarissima per lui della volontà della sua Signora.. Prese le corde lasciando ricadere la cortina delle tende come se li richiudesse in una bozzolo. Una dimensione tutta loro. Fece il cappio e lo strinse intorno al cazzo senza esitazione. Il suo guinzaglio. Ma niente avrebbe potuto davvero prepararlo a ciò che vide quando alzò lo sguardo sul letto.
Ne era stata certa. Era paralizzato dallo stupore. Bene avrebbe imparato meglio la lezione. Sofia stava per dimostragli che il dominio non è un fatto di posizioni o di strumenti ma di carisma. Gli sorrise: “Vieni Leo. Non credo tu abbia bisogno davvero di spiegazioni. Sai cosa devi fare e anche perché. Ma puoi scegliere la fuga. Io anche volendo come vedi non potrei fermarti. Bon chance mon petite jolie!”.
Bastarda. Sorrideva. Dannazione. Maledetta troia crudele e adorabile. Lo aveva fregato. Lo guardava con quegli occhi cangianti. Era legata. Bloccata mani e piedi da robuste corde di seta nera al letto di ferro battuto. Il viola del morbido cuoio del suo regalo le fasciava i fianchi torniti spiccando in tutta la sua eretta promessa di doloroso piacere. Dio se era stronza! Voleva lo facesse da solo. Era pronta a rischiare tutto. A restare lì legata, pur di ottenere la sua resa. Leo era furioso. E ammirato. Quella donna aveva un coraggio e una forza assoluti. Lo avrebbe fatto ovviamente. Su quello non c’erano dubbi. Non era così stupido da negarsi ciò che voleva più di ogni altra cosa, l’estasi del suo possesso, solo per uno stupido moto di orgoglio. Ma un conto era lasciarla vincere. E vincere con lei. Un’altra farla stravincere. Leo doveva trovare una cosa. Un piccolo, apparentemente innocuo, gesto che però le avrebbe fatto capire che lui aveva compreso molto di più di quello che era stato nelle intenzioni di lei lasciargli capire. Si avrebbe fatto così. I capi delle corde del suo guinzaglio erano abbastanza lunghi. Leo sorrise a sua volta alla magnifica femmina in attesa sul letto: “Troia e bastarda. Lo sai bene che non ho scelta. Non quando l’odore della tua fica mi intossica la mente e la forza della tua voglia mi scuote le viscere. Ma non è finita… “.
Leo si mise a cavalcioni sul corpo di Sofia e incatenando lo sguardo di lei al suo iniziò lentamente a calarsi sul dildo svettante. Lo accolse cm dopo cm nel suo culo. E quando fu completamente dentro, lei in lui, afferrò i capi del guinzaglio da cazzo e li legò saldamente all’anello del collare di morbidissima pelle che Sofia indossava. Ecco ora erano pari. Ancora una volta. Ad ogni movimento del cazzo di Leo determinato dalla cavalcata che Sofia gli aveva imposto, la bocca di lei si sarebbe trovata ad un cm dalla sua cappella. E non avrebbe saputo resistere.
Cazzo. Cazzo. Cazzo. Quel dannato arrogante bastardo aveva capito. Perfettamente e, molto di più di quello che lei si era augurata. Sofia non sapeva se usare il poco fiato che le restava per insultarlo o vezzeggiarlo. Nel dubbio lasciò fosse la musica a parlare.
“That you've always been her lover, And you want to travel with her, And you want to travel blind, And you think maybe you'll trust her, For you've touched her perfect body with your mind”.
La voce di Cohen cullava Leo. Ritmando il crescendo della sua cavalcata selvaggia. Parlando di lui. Del viaggio nell’oscurità, che era pronto a fare per lei. Insieme a lei, l’unica di cui poteva davvero fidarsi, perché ne stava toccando il corpo perfetto, con la mente.
L’estasi lo colse. Un minuto prima dell’oblio Leo la chiamò per nome: “Amore!”.
La pioggia scivolava lenta sulla tesa lucida del suo borsalino nero. L’impermeabile le accarezzava i fianchi mentre con ampie falcate percorreva quella vecchia stradina lastricata di ciottoli che portava al luogo dell’appuntamento.
Aveva scelto accuratamente quel posto. Leo aveva bisogno di una lezione. E lei… Lei dannazione aveva bisogno di lui. Sentiva quel bisogno crescerle dentro. Prepotente. Le toglieva il respiro. Le mordeva le viscere per farsi liquida ustione tra le cosce. L’avrebbe controllato per tutto il tempo che le sarebbe servito.
Quel luogo l’avrebbe aiutata. Era pregno di ricordi. Raccontava le tappe della sua esistenza. La sua evoluzione di donna. Per questo non aveva mai voluto separarsene. E la casa era ancora lì. Con i suoi balconi di ferro battuto. I suoi muri di mattoni, come si usava una volta, quei cortili interni, dove la vita giocava a rimpiattino col dolore. Era il suo rifugio. Il luogo dove anche nei momenti peggiori aveva potuto sentire di essere al sicuro. Protetta.
Sofia faceva scorrere lentamente le mani sulla morbida pelle del vecchio divano che aveva ereditato da sua nonna. Quello in cui bambina ascoltava rapita la voce di quella donna che tanto aveva vissuto narrare di pittori e musicisti, di ballerine e poeti.
Parigi. Un giorno ci avrebbe portato Leo. Gli avrebbe mostrato l’anima baldracca di quella città. La poesia violenta di certi suoi vicoli improvvisamente aperti su petite cafè di una bellezza struggente. Ma non era tempo ne di propositi ne di ricordi. Era ora di agire. Aveva poco minuti prima che Leo arrivasse e lo spettacolo iniziasse. Doveva organizzare la scena al meglio. Accese le molte candele sparse per la stanza. Le fiammelle calde gettavano una luce ambrata sul suo volto. Accendendolo di mistero. Fissò le tende di seta indiana, che dividevano la stanza da letto dall’unica altra camera del piccolo appartamento, ad un lato degli infissi di legno con delle corde. Lo stereo diffondeva le note seducenti della voce di Cohen. Toni bassi di ruggine e tabacco. Sofia sorrideva mentre una scia di vestiti andava a segnare un sentiero che Leo non avrebbe potuto evitare di compiere.
Leo era teso. Talmente teso, che non avvertiva nemmeno il battere ritmico della pioggia sulla schiena, mentre cercava il luogo, in cui Sofia gli aveva dato appuntamento. Il lampeggiare del suo cellulare lo aveva colto nel dormiveglia. Non si aspettava che lei scegliesse quel modo per richiamarlo all’ordine. Al suo ruolo. E a quello di lei. A ciò che lui le doveva. Ma in fondo non ne era davvero stupito. Quella donna era imprevedibile e crudele in un modo che continuava ad affascinarlo.
Ecco l’aveva trovato. Una vecchia casa di ringhiera. Piena di fascino e perfettamente ristrutturata. Tipico di Sofia. L’aveva costretto ad entrare nel suo territorio per battersi. E lui ovviamente aveva fatto il suo gioco. Sicuro che comunque fosse andata per lui sarebbe stata una vittoria. Ma ora iniziava ad avere qualche dubbio mentre saliva a due a due le rampe di scale che portavano all’appartamento di quella che ormai per lui era la sua compagna dell’anima. La sua signora. La porta era aperta. Leo entrò ancora incerto su cosa aspettarsi. Fiammelle di candele e quella dannata voce. Leo ancora non riusciva a capire cosa ci trovasse lei in quel tizio che sussurrava invece di cantare storie di puttane e poeti che poco avevano a che vedere con il loro mondo. Si spogliò non aveva ricevuto alcuna istruzione in tal senso. Ma non ne aveva bisogno. Le mutandine di Sofia che pendevano dal paralume nell’angolo erano un’indicazione chiarissima per lui della volontà della sua Signora.. Prese le corde lasciando ricadere la cortina delle tende come se li richiudesse in una bozzolo. Una dimensione tutta loro. Fece il cappio e lo strinse intorno al cazzo senza esitazione. Il suo guinzaglio. Ma niente avrebbe potuto davvero prepararlo a ciò che vide quando alzò lo sguardo sul letto.
Ne era stata certa. Era paralizzato dallo stupore. Bene avrebbe imparato meglio la lezione. Sofia stava per dimostragli che il dominio non è un fatto di posizioni o di strumenti ma di carisma. Gli sorrise: “Vieni Leo. Non credo tu abbia bisogno davvero di spiegazioni. Sai cosa devi fare e anche perché. Ma puoi scegliere la fuga. Io anche volendo come vedi non potrei fermarti. Bon chance mon petite jolie!”.
Bastarda. Sorrideva. Dannazione. Maledetta troia crudele e adorabile. Lo aveva fregato. Lo guardava con quegli occhi cangianti. Era legata. Bloccata mani e piedi da robuste corde di seta nera al letto di ferro battuto. Il viola del morbido cuoio del suo regalo le fasciava i fianchi torniti spiccando in tutta la sua eretta promessa di doloroso piacere. Dio se era stronza! Voleva lo facesse da solo. Era pronta a rischiare tutto. A restare lì legata, pur di ottenere la sua resa. Leo era furioso. E ammirato. Quella donna aveva un coraggio e una forza assoluti. Lo avrebbe fatto ovviamente. Su quello non c’erano dubbi. Non era così stupido da negarsi ciò che voleva più di ogni altra cosa, l’estasi del suo possesso, solo per uno stupido moto di orgoglio. Ma un conto era lasciarla vincere. E vincere con lei. Un’altra farla stravincere. Leo doveva trovare una cosa. Un piccolo, apparentemente innocuo, gesto che però le avrebbe fatto capire che lui aveva compreso molto di più di quello che era stato nelle intenzioni di lei lasciargli capire. Si avrebbe fatto così. I capi delle corde del suo guinzaglio erano abbastanza lunghi. Leo sorrise a sua volta alla magnifica femmina in attesa sul letto: “Troia e bastarda. Lo sai bene che non ho scelta. Non quando l’odore della tua fica mi intossica la mente e la forza della tua voglia mi scuote le viscere. Ma non è finita… “.
Leo si mise a cavalcioni sul corpo di Sofia e incatenando lo sguardo di lei al suo iniziò lentamente a calarsi sul dildo svettante. Lo accolse cm dopo cm nel suo culo. E quando fu completamente dentro, lei in lui, afferrò i capi del guinzaglio da cazzo e li legò saldamente all’anello del collare di morbidissima pelle che Sofia indossava. Ecco ora erano pari. Ancora una volta. Ad ogni movimento del cazzo di Leo determinato dalla cavalcata che Sofia gli aveva imposto, la bocca di lei si sarebbe trovata ad un cm dalla sua cappella. E non avrebbe saputo resistere.
Cazzo. Cazzo. Cazzo. Quel dannato arrogante bastardo aveva capito. Perfettamente e, molto di più di quello che lei si era augurata. Sofia non sapeva se usare il poco fiato che le restava per insultarlo o vezzeggiarlo. Nel dubbio lasciò fosse la musica a parlare.
“That you've always been her lover, And you want to travel with her, And you want to travel blind, And you think maybe you'll trust her, For you've touched her perfect body with your mind”.
La voce di Cohen cullava Leo. Ritmando il crescendo della sua cavalcata selvaggia. Parlando di lui. Del viaggio nell’oscurità, che era pronto a fare per lei. Insieme a lei, l’unica di cui poteva davvero fidarsi, perché ne stava toccando il corpo perfetto, con la mente.
L’estasi lo colse. Un minuto prima dell’oblio Leo la chiamò per nome: “Amore!”.
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