Pioveva. Una fitta pioggia novembrina. Satura di gocce. Confusa nell’ultima nebbia dell’anno. Le era sempre piaciuto quel lento declinare del rosseggiante autunno nella decisa oscurità dell’inverno. Amava quel tempo. Bagnato di aspettative. Accesso di luci. Come lei. Stava cercando. Ancora una volta. Cercava una fantasia da incarnare. Una voglia da soddisfare. Un uomo da amare. Forse.
La pioggia scivolava lenta sulla tesa lucida del suo borsalino nero. L’impermeabile le accarezzava i fianchi mentre con ampie falcate percorreva quella vecchia stradina lastricata di ciottoli che portava al luogo dell’appuntamento.
Aveva scelto accuratamente quel posto. Leo aveva bisogno di una lezione. E lei… Lei dannazione aveva bisogno di lui. Sentiva quel bisogno crescerle dentro. Prepotente. Le toglieva il respiro. Le mordeva le viscere per farsi liquida ustione tra le cosce. L’avrebbe controllato per tutto il tempo che le sarebbe servito.
Quel luogo l’avrebbe aiutata. Era pregno di ricordi. Raccontava le tappe della sua esistenza. La sua evoluzione di donna. Per questo non aveva mai voluto separarsene. E la casa era ancora lì. Con i suoi balconi di ferro battuto. I suoi muri di mattoni, come si usava una volta, quei cortili interni, dove la vita giocava a rimpiattino col dolore. Era il suo rifugio. Il luogo dove anche nei momenti peggiori aveva potuto sentire di essere al sicuro. Protetta.
Sofia faceva scorrere lentamente le mani sulla morbida pelle del vecchio divano che aveva ereditato da sua nonna. Quello in cui bambina ascoltava rapita la voce di quella donna che tanto aveva vissuto narrare di pittori e musicisti, di ballerine e poeti.
Parigi. Un giorno ci avrebbe portato Leo. Gli avrebbe mostrato l’anima baldracca di quella città. La poesia violenta di certi suoi vicoli improvvisamente aperti su petite cafè di una bellezza struggente. Ma non era tempo ne di propositi ne di ricordi. Era ora di agire. Aveva poco minuti prima che Leo arrivasse e lo spettacolo iniziasse. Doveva organizzare la scena al meglio. Accese le molte candele sparse per la stanza. Le fiammelle calde gettavano una luce ambrata sul suo volto. Accendendolo di mistero. Fissò le tende di seta indiana, che dividevano la stanza da letto dall’unica altra camera del piccolo appartamento, ad un lato degli infissi di legno con delle corde. Lo stereo diffondeva le note seducenti della voce di Cohen. Toni bassi di ruggine e tabacco. Sofia sorrideva mentre una scia di vestiti andava a segnare un sentiero che Leo non avrebbe potuto evitare di compiere.
Leo era teso. Talmente teso, che non avvertiva nemmeno il battere ritmico della pioggia sulla schiena, mentre cercava il luogo, in cui Sofia gli aveva dato appuntamento. Il lampeggiare del suo cellulare lo aveva colto nel dormiveglia. Non si aspettava che lei scegliesse quel modo per richiamarlo all’ordine. Al suo ruolo. E a quello di lei. A ciò che lui le doveva. Ma in fondo non ne era davvero stupito. Quella donna era imprevedibile e crudele in un modo che continuava ad affascinarlo.
Ecco l’aveva trovato. Una vecchia casa di ringhiera. Piena di fascino e perfettamente ristrutturata. Tipico di Sofia. L’aveva costretto ad entrare nel suo territorio per battersi. E lui ovviamente aveva fatto il suo gioco. Sicuro che comunque fosse andata per lui sarebbe stata una vittoria. Ma ora iniziava ad avere qualche dubbio mentre saliva a due a due le rampe di scale che portavano all’appartamento di quella che ormai per lui era la sua compagna dell’anima. La sua signora. La porta era aperta. Leo entrò ancora incerto su cosa aspettarsi. Fiammelle di candele e quella dannata voce. Leo ancora non riusciva a capire cosa ci trovasse lei in quel tizio che sussurrava invece di cantare storie di puttane e poeti che poco avevano a che vedere con il loro mondo. Si spogliò non aveva ricevuto alcuna istruzione in tal senso. Ma non ne aveva bisogno. Le mutandine di Sofia che pendevano dal paralume nell’angolo erano un’indicazione chiarissima per lui della volontà della sua Signora.. Prese le corde lasciando ricadere la cortina delle tende come se li richiudesse in una bozzolo. Una dimensione tutta loro. Fece il cappio e lo strinse intorno al cazzo senza esitazione. Il suo guinzaglio. Ma niente avrebbe potuto davvero prepararlo a ciò che vide quando alzò lo sguardo sul letto.
Ne era stata certa. Era paralizzato dallo stupore. Bene avrebbe imparato meglio la lezione. Sofia stava per dimostragli che il dominio non è un fatto di posizioni o di strumenti ma di carisma. Gli sorrise: “Vieni Leo. Non credo tu abbia bisogno davvero di spiegazioni. Sai cosa devi fare e anche perché. Ma puoi scegliere la fuga. Io anche volendo come vedi non potrei fermarti. Bon chance mon petite jolie!”.
Bastarda. Sorrideva. Dannazione. Maledetta troia crudele e adorabile. Lo aveva fregato. Lo guardava con quegli occhi cangianti. Era legata. Bloccata mani e piedi da robuste corde di seta nera al letto di ferro battuto. Il viola del morbido cuoio del suo regalo le fasciava i fianchi torniti spiccando in tutta la sua eretta promessa di doloroso piacere. Dio se era stronza! Voleva lo facesse da solo. Era pronta a rischiare tutto. A restare lì legata, pur di ottenere la sua resa. Leo era furioso. E ammirato. Quella donna aveva un coraggio e una forza assoluti. Lo avrebbe fatto ovviamente. Su quello non c’erano dubbi. Non era così stupido da negarsi ciò che voleva più di ogni altra cosa, l’estasi del suo possesso, solo per uno stupido moto di orgoglio. Ma un conto era lasciarla vincere. E vincere con lei. Un’altra farla stravincere. Leo doveva trovare una cosa. Un piccolo, apparentemente innocuo, gesto che però le avrebbe fatto capire che lui aveva compreso molto di più di quello che era stato nelle intenzioni di lei lasciargli capire. Si avrebbe fatto così. I capi delle corde del suo guinzaglio erano abbastanza lunghi. Leo sorrise a sua volta alla magnifica femmina in attesa sul letto: “Troia e bastarda. Lo sai bene che non ho scelta. Non quando l’odore della tua fica mi intossica la mente e la forza della tua voglia mi scuote le viscere. Ma non è finita… “.
Leo si mise a cavalcioni sul corpo di Sofia e incatenando lo sguardo di lei al suo iniziò lentamente a calarsi sul dildo svettante. Lo accolse cm dopo cm nel suo culo. E quando fu completamente dentro, lei in lui, afferrò i capi del guinzaglio da cazzo e li legò saldamente all’anello del collare di morbidissima pelle che Sofia indossava. Ecco ora erano pari. Ancora una volta. Ad ogni movimento del cazzo di Leo determinato dalla cavalcata che Sofia gli aveva imposto, la bocca di lei si sarebbe trovata ad un cm dalla sua cappella. E non avrebbe saputo resistere.
Cazzo. Cazzo. Cazzo. Quel dannato arrogante bastardo aveva capito. Perfettamente e, molto di più di quello che lei si era augurata. Sofia non sapeva se usare il poco fiato che le restava per insultarlo o vezzeggiarlo. Nel dubbio lasciò fosse la musica a parlare.
“That you've always been her lover, And you want to travel with her, And you want to travel blind, And you think maybe you'll trust her, For you've touched her perfect body with your mind”.
La voce di Cohen cullava Leo. Ritmando il crescendo della sua cavalcata selvaggia. Parlando di lui. Del viaggio nell’oscurità, che era pronto a fare per lei. Insieme a lei, l’unica di cui poteva davvero fidarsi, perché ne stava toccando il corpo perfetto, con la mente.
L’estasi lo colse. Un minuto prima dell’oblio Leo la chiamò per nome: “Amore!”.
La pioggia scivolava lenta sulla tesa lucida del suo borsalino nero. L’impermeabile le accarezzava i fianchi mentre con ampie falcate percorreva quella vecchia stradina lastricata di ciottoli che portava al luogo dell’appuntamento.
Aveva scelto accuratamente quel posto. Leo aveva bisogno di una lezione. E lei… Lei dannazione aveva bisogno di lui. Sentiva quel bisogno crescerle dentro. Prepotente. Le toglieva il respiro. Le mordeva le viscere per farsi liquida ustione tra le cosce. L’avrebbe controllato per tutto il tempo che le sarebbe servito.
Quel luogo l’avrebbe aiutata. Era pregno di ricordi. Raccontava le tappe della sua esistenza. La sua evoluzione di donna. Per questo non aveva mai voluto separarsene. E la casa era ancora lì. Con i suoi balconi di ferro battuto. I suoi muri di mattoni, come si usava una volta, quei cortili interni, dove la vita giocava a rimpiattino col dolore. Era il suo rifugio. Il luogo dove anche nei momenti peggiori aveva potuto sentire di essere al sicuro. Protetta.
Sofia faceva scorrere lentamente le mani sulla morbida pelle del vecchio divano che aveva ereditato da sua nonna. Quello in cui bambina ascoltava rapita la voce di quella donna che tanto aveva vissuto narrare di pittori e musicisti, di ballerine e poeti.
Parigi. Un giorno ci avrebbe portato Leo. Gli avrebbe mostrato l’anima baldracca di quella città. La poesia violenta di certi suoi vicoli improvvisamente aperti su petite cafè di una bellezza struggente. Ma non era tempo ne di propositi ne di ricordi. Era ora di agire. Aveva poco minuti prima che Leo arrivasse e lo spettacolo iniziasse. Doveva organizzare la scena al meglio. Accese le molte candele sparse per la stanza. Le fiammelle calde gettavano una luce ambrata sul suo volto. Accendendolo di mistero. Fissò le tende di seta indiana, che dividevano la stanza da letto dall’unica altra camera del piccolo appartamento, ad un lato degli infissi di legno con delle corde. Lo stereo diffondeva le note seducenti della voce di Cohen. Toni bassi di ruggine e tabacco. Sofia sorrideva mentre una scia di vestiti andava a segnare un sentiero che Leo non avrebbe potuto evitare di compiere.
Leo era teso. Talmente teso, che non avvertiva nemmeno il battere ritmico della pioggia sulla schiena, mentre cercava il luogo, in cui Sofia gli aveva dato appuntamento. Il lampeggiare del suo cellulare lo aveva colto nel dormiveglia. Non si aspettava che lei scegliesse quel modo per richiamarlo all’ordine. Al suo ruolo. E a quello di lei. A ciò che lui le doveva. Ma in fondo non ne era davvero stupito. Quella donna era imprevedibile e crudele in un modo che continuava ad affascinarlo.
Ecco l’aveva trovato. Una vecchia casa di ringhiera. Piena di fascino e perfettamente ristrutturata. Tipico di Sofia. L’aveva costretto ad entrare nel suo territorio per battersi. E lui ovviamente aveva fatto il suo gioco. Sicuro che comunque fosse andata per lui sarebbe stata una vittoria. Ma ora iniziava ad avere qualche dubbio mentre saliva a due a due le rampe di scale che portavano all’appartamento di quella che ormai per lui era la sua compagna dell’anima. La sua signora. La porta era aperta. Leo entrò ancora incerto su cosa aspettarsi. Fiammelle di candele e quella dannata voce. Leo ancora non riusciva a capire cosa ci trovasse lei in quel tizio che sussurrava invece di cantare storie di puttane e poeti che poco avevano a che vedere con il loro mondo. Si spogliò non aveva ricevuto alcuna istruzione in tal senso. Ma non ne aveva bisogno. Le mutandine di Sofia che pendevano dal paralume nell’angolo erano un’indicazione chiarissima per lui della volontà della sua Signora.. Prese le corde lasciando ricadere la cortina delle tende come se li richiudesse in una bozzolo. Una dimensione tutta loro. Fece il cappio e lo strinse intorno al cazzo senza esitazione. Il suo guinzaglio. Ma niente avrebbe potuto davvero prepararlo a ciò che vide quando alzò lo sguardo sul letto.
Ne era stata certa. Era paralizzato dallo stupore. Bene avrebbe imparato meglio la lezione. Sofia stava per dimostragli che il dominio non è un fatto di posizioni o di strumenti ma di carisma. Gli sorrise: “Vieni Leo. Non credo tu abbia bisogno davvero di spiegazioni. Sai cosa devi fare e anche perché. Ma puoi scegliere la fuga. Io anche volendo come vedi non potrei fermarti. Bon chance mon petite jolie!”.
Bastarda. Sorrideva. Dannazione. Maledetta troia crudele e adorabile. Lo aveva fregato. Lo guardava con quegli occhi cangianti. Era legata. Bloccata mani e piedi da robuste corde di seta nera al letto di ferro battuto. Il viola del morbido cuoio del suo regalo le fasciava i fianchi torniti spiccando in tutta la sua eretta promessa di doloroso piacere. Dio se era stronza! Voleva lo facesse da solo. Era pronta a rischiare tutto. A restare lì legata, pur di ottenere la sua resa. Leo era furioso. E ammirato. Quella donna aveva un coraggio e una forza assoluti. Lo avrebbe fatto ovviamente. Su quello non c’erano dubbi. Non era così stupido da negarsi ciò che voleva più di ogni altra cosa, l’estasi del suo possesso, solo per uno stupido moto di orgoglio. Ma un conto era lasciarla vincere. E vincere con lei. Un’altra farla stravincere. Leo doveva trovare una cosa. Un piccolo, apparentemente innocuo, gesto che però le avrebbe fatto capire che lui aveva compreso molto di più di quello che era stato nelle intenzioni di lei lasciargli capire. Si avrebbe fatto così. I capi delle corde del suo guinzaglio erano abbastanza lunghi. Leo sorrise a sua volta alla magnifica femmina in attesa sul letto: “Troia e bastarda. Lo sai bene che non ho scelta. Non quando l’odore della tua fica mi intossica la mente e la forza della tua voglia mi scuote le viscere. Ma non è finita… “.
Leo si mise a cavalcioni sul corpo di Sofia e incatenando lo sguardo di lei al suo iniziò lentamente a calarsi sul dildo svettante. Lo accolse cm dopo cm nel suo culo. E quando fu completamente dentro, lei in lui, afferrò i capi del guinzaglio da cazzo e li legò saldamente all’anello del collare di morbidissima pelle che Sofia indossava. Ecco ora erano pari. Ancora una volta. Ad ogni movimento del cazzo di Leo determinato dalla cavalcata che Sofia gli aveva imposto, la bocca di lei si sarebbe trovata ad un cm dalla sua cappella. E non avrebbe saputo resistere.
Cazzo. Cazzo. Cazzo. Quel dannato arrogante bastardo aveva capito. Perfettamente e, molto di più di quello che lei si era augurata. Sofia non sapeva se usare il poco fiato che le restava per insultarlo o vezzeggiarlo. Nel dubbio lasciò fosse la musica a parlare.
“That you've always been her lover, And you want to travel with her, And you want to travel blind, And you think maybe you'll trust her, For you've touched her perfect body with your mind”.
La voce di Cohen cullava Leo. Ritmando il crescendo della sua cavalcata selvaggia. Parlando di lui. Del viaggio nell’oscurità, che era pronto a fare per lei. Insieme a lei, l’unica di cui poteva davvero fidarsi, perché ne stava toccando il corpo perfetto, con la mente.
L’estasi lo colse. Un minuto prima dell’oblio Leo la chiamò per nome: “Amore!”.