All'inizio c'era lei...Donna Cayetana, Duchessa d'Alba

Adoro Goya. E adoro soprattutto lei. Donna María del Pilar Teresa Cayetana de Silva y Alvarez del Toledo, meglio conosciuta come la Duchessa d'Alba. La modella prediletta di Goya. La sua musa. La sua amante. La fonte della sua passione e del suo dolore. Cayetana è uan seduttrice, aperta a tutte le esperienze, libera nel corpo e nella mente. Eppure vibra di una passione totale, che è evidente persino nel quadro, solo per Francisco. Il resto sono "balocchi e solazzi" nulla di più. Ed è qui l'ossimoro. Questa donna è una meravigliosa fonte di contraddiziuoni disciolte, intrecciate, fuse l'una nell'altra... esattamente come sono io. In me convivono luci e ombre, mescolate non tanto in una grigia penombra quando in un continuo lampeggiare di bagliori, scolorare di albe, addensarsi di nubi squarciate da oasi di sereno. Sono come Cayetana intessuta di contraddizioni. E seduttrice della vita prima di tutto.

mercoledì 21 novembre 2007

LEZIONI!!!!

Pioveva. Una fitta pioggia novembrina. Satura di gocce. Confusa nell’ultima nebbia dell’anno. Le era sempre piaciuto quel lento declinare del rosseggiante autunno nella decisa oscurità dell’inverno. Amava quel tempo. Bagnato di aspettative. Accesso di luci. Come lei. Stava cercando. Ancora una volta. Cercava una fantasia da incarnare. Una voglia da soddisfare. Un uomo da amare. Forse.
La pioggia scivolava lenta sulla tesa lucida del suo borsalino nero. L’impermeabile le accarezzava i fianchi mentre con ampie falcate percorreva quella vecchia stradina lastricata di ciottoli che portava al luogo dell’appuntamento.
Aveva scelto accuratamente quel posto. Leo aveva bisogno di una lezione. E lei… Lei dannazione aveva bisogno di lui. Sentiva quel bisogno crescerle dentro. Prepotente. Le toglieva il respiro. Le mordeva le viscere per farsi liquida ustione tra le cosce. L’avrebbe controllato per tutto il tempo che le sarebbe servito.
Quel luogo l’avrebbe aiutata. Era pregno di ricordi. Raccontava le tappe della sua esistenza. La sua evoluzione di donna. Per questo non aveva mai voluto separarsene. E la casa era ancora lì. Con i suoi balconi di ferro battuto. I suoi muri di mattoni, come si usava una volta, quei cortili interni, dove la vita giocava a rimpiattino col dolore. Era il suo rifugio. Il luogo dove anche nei momenti peggiori aveva potuto sentire di essere al sicuro. Protetta.
Sofia faceva scorrere lentamente le mani sulla morbida pelle del vecchio divano che aveva ereditato da sua nonna. Quello in cui bambina ascoltava rapita la voce di quella donna che tanto aveva vissuto narrare di pittori e musicisti, di ballerine e poeti.
Parigi. Un giorno ci avrebbe portato Leo. Gli avrebbe mostrato l’anima baldracca di quella città. La poesia violenta di certi suoi vicoli improvvisamente aperti su petite cafè di una bellezza struggente. Ma non era tempo ne di propositi ne di ricordi. Era ora di agire. Aveva poco minuti prima che Leo arrivasse e lo spettacolo iniziasse. Doveva organizzare la scena al meglio. Accese le molte candele sparse per la stanza. Le fiammelle calde gettavano una luce ambrata sul suo volto. Accendendolo di mistero. Fissò le tende di seta indiana, che dividevano la stanza da letto dall’unica altra camera del piccolo appartamento, ad un lato degli infissi di legno con delle corde. Lo stereo diffondeva le note seducenti della voce di Cohen. Toni bassi di ruggine e tabacco. Sofia sorrideva mentre una scia di vestiti andava a segnare un sentiero che Leo non avrebbe potuto evitare di compiere.
Leo era teso. Talmente teso, che non avvertiva nemmeno il battere ritmico della pioggia sulla schiena, mentre cercava il luogo, in cui Sofia gli aveva dato appuntamento. Il lampeggiare del suo cellulare lo aveva colto nel dormiveglia. Non si aspettava che lei scegliesse quel modo per richiamarlo all’ordine. Al suo ruolo. E a quello di lei. A ciò che lui le doveva. Ma in fondo non ne era davvero stupito. Quella donna era imprevedibile e crudele in un modo che continuava ad affascinarlo.
Ecco l’aveva trovato. Una vecchia casa di ringhiera. Piena di fascino e perfettamente ristrutturata. Tipico di Sofia. L’aveva costretto ad entrare nel suo territorio per battersi. E lui ovviamente aveva fatto il suo gioco. Sicuro che comunque fosse andata per lui sarebbe stata una vittoria. Ma ora iniziava ad avere qualche dubbio mentre saliva a due a due le rampe di scale che portavano all’appartamento di quella che ormai per lui era la sua compagna dell’anima. La sua signora. La porta era aperta. Leo entrò ancora incerto su cosa aspettarsi. Fiammelle di candele e quella dannata voce. Leo ancora non riusciva a capire cosa ci trovasse lei in quel tizio che sussurrava invece di cantare storie di puttane e poeti che poco avevano a che vedere con il loro mondo. Si spogliò non aveva ricevuto alcuna istruzione in tal senso. Ma non ne aveva bisogno. Le mutandine di Sofia che pendevano dal paralume nell’angolo erano un’indicazione chiarissima per lui della volontà della sua Signora.. Prese le corde lasciando ricadere la cortina delle tende come se li richiudesse in una bozzolo. Una dimensione tutta loro. Fece il cappio e lo strinse intorno al cazzo senza esitazione. Il suo guinzaglio. Ma niente avrebbe potuto davvero prepararlo a ciò che vide quando alzò lo sguardo sul letto.
Ne era stata certa. Era paralizzato dallo stupore. Bene avrebbe imparato meglio la lezione. Sofia stava per dimostragli che il dominio non è un fatto di posizioni o di strumenti ma di carisma. Gli sorrise: “Vieni Leo. Non credo tu abbia bisogno davvero di spiegazioni. Sai cosa devi fare e anche perché. Ma puoi scegliere la fuga. Io anche volendo come vedi non potrei fermarti. Bon chance mon petite jolie!”.
Bastarda. Sorrideva. Dannazione. Maledetta troia crudele e adorabile. Lo aveva fregato. Lo guardava con quegli occhi cangianti. Era legata. Bloccata mani e piedi da robuste corde di seta nera al letto di ferro battuto. Il viola del morbido cuoio del suo regalo le fasciava i fianchi torniti spiccando in tutta la sua eretta promessa di doloroso piacere. Dio se era stronza! Voleva lo facesse da solo. Era pronta a rischiare tutto. A restare lì legata, pur di ottenere la sua resa. Leo era furioso. E ammirato. Quella donna aveva un coraggio e una forza assoluti. Lo avrebbe fatto ovviamente. Su quello non c’erano dubbi. Non era così stupido da negarsi ciò che voleva più di ogni altra cosa, l’estasi del suo possesso, solo per uno stupido moto di orgoglio. Ma un conto era lasciarla vincere. E vincere con lei. Un’altra farla stravincere. Leo doveva trovare una cosa. Un piccolo, apparentemente innocuo, gesto che però le avrebbe fatto capire che lui aveva compreso molto di più di quello che era stato nelle intenzioni di lei lasciargli capire. Si avrebbe fatto così. I capi delle corde del suo guinzaglio erano abbastanza lunghi. Leo sorrise a sua volta alla magnifica femmina in attesa sul letto: “Troia e bastarda. Lo sai bene che non ho scelta. Non quando l’odore della tua fica mi intossica la mente e la forza della tua voglia mi scuote le viscere. Ma non è finita… “.
Leo si mise a cavalcioni sul corpo di Sofia e incatenando lo sguardo di lei al suo iniziò lentamente a calarsi sul dildo svettante. Lo accolse cm dopo cm nel suo culo. E quando fu completamente dentro, lei in lui, afferrò i capi del guinzaglio da cazzo e li legò saldamente all’anello del collare di morbidissima pelle che Sofia indossava. Ecco ora erano pari. Ancora una volta. Ad ogni movimento del cazzo di Leo determinato dalla cavalcata che Sofia gli aveva imposto, la bocca di lei si sarebbe trovata ad un cm dalla sua cappella. E non avrebbe saputo resistere.
Cazzo. Cazzo. Cazzo. Quel dannato arrogante bastardo aveva capito. Perfettamente e, molto di più di quello che lei si era augurata. Sofia non sapeva se usare il poco fiato che le restava per insultarlo o vezzeggiarlo. Nel dubbio lasciò fosse la musica a parlare.
“That you've always been her lover, And you want to travel with her, And you want to travel blind, And you think maybe you'll trust her, For you've touched her perfect body with your mind”.
La voce di Cohen cullava Leo. Ritmando il crescendo della sua cavalcata selvaggia. Parlando di lui. Del viaggio nell’oscurità, che era pronto a fare per lei. Insieme a lei, l’unica di cui poteva davvero fidarsi, perché ne stava toccando il corpo perfetto, con la mente.
L’estasi lo colse. Un minuto prima dell’oblio Leo la chiamò per nome: “Amore!”.

mercoledì 14 novembre 2007

Sveltina di sensi e parole

Ero indecisa. Fino all'ultimo minuto. Ho optato, poi, per i collant portati a pelle. La microfibra non irrita come il naylon. Gonnellina al ginocchio, canotta e microcardigan, viola, semislacciato. Stivali di camoscio anche essi viola, tacco 10, naturalmente. Cappotto e via. Minuti contati. Cellulare lampeggiante e passo rapido. Mi sono persino stupita di riuscire a controllarmi il tempo di entrare in macchina e arrivare a casa tua. Sarà stata la divisa. In fondo, sciupartela mi sarebbe spiaciuto. Almeno un pochino. Per un secondo diciamo. Va.
E' che appena entrati in casa, invece di inserire il turbo ho inserito il rallenty. E il mio corpo si è modellato sul tuo. Curva dopo curva. E non se n'è più staccato. Ho guidato la tua mano nei miei collant. Tra le mie cosce. Non che avessi bisogno di sollecitazione alcuna, ma mi piace "guidarti". Lo sai bene. Il tuo cazzo ha risposto da bravo soldato all'istante.
Mi piacciono i soldatini obbedienti ma non troppo. Così mi offrono l'occasione di punirli. Oggi non c'era tempo. Così le tue mani sono scivolate comoda sella sul mio sesso bollente. E io ho ondeggiato finchè la voglia di cazzo non mi ha lasciata senza fiato. Pochi minuti. Il tuo fiato rotto mi accarezzava la pelle delicata del collo. Lì appena sotto il lobo dell’orecchio. La mia mano artigliava il tuo culo. Torta all’indietro, ma decisa ad incidere tracce rossastre. Nonostante il dolore. Mi sono offerta al tuo ritmo martellante. Il mio corpo sostenuto in geometrica angolazione solo dalla tua ossessione violenta. Cercavi il fondo. Quello della mia fica. Quello della tua voglia. L'hai trovato. L'esplosione repentina ci ha lasciato senza fiato. Il mio corpo ha bevuto avido il gusto mescolato delle nostre rabbiose volontà.
Dopo. Tempo rapido di chiacchiere e risate, nell’abbraccio della penombra creata ad arte, in una mattina di fine autunno.
Rimane una sola domanda. Non ti avevo esplicitamente chiesto di portarmi un bicchiere?

lunedì 12 novembre 2007

LA PUNIZIONE

Era furiosa. Addolorata. Ferita. E furiosa. Si aggirava come una belva in gabbia. Il sangue le ruggiva nelle vene. La mente non riusciva a staccare un dannato minuto da quel dolore rabbioso. Non sapeva nemmeno lei perché si lasciasse divorare così. Lei aveva sempre il controllo delle sue emozioni. Sapeva attendere. E colpire con precisione millimetrica. Non scopriva mai il fianco e feriva con precisione millimetrica. Sempre e comunque laddove aveva voluto colpire. Eppure. Quel dannato ragazzo l’aveva spinta talmente oltre, che si era scoperta. Dannazione non era davvero da lei. Calma. Doveva stare calma. Respirare. Controllarsi. Non si era nemmeno accorta di essersi scorticata i polsi con le unghie laccate di un viola, sorprendente per chiunque, ma non per lei. Guardava quasi stupita il suo sangue sgorgare da quei graffi sottili. La mentre proiettata altrove. Verso l’odore di un'altra pelle ferita, di un altro sangue sgorgante e di lacrime che, finalmente, l’avrebbero placata. Forse.
Doveva andare là. Nell’unico luogo in cui sapeva sarebbe stata compresa totalmente. Nel luogo in cui, il balsamo dolce dell’obbedienza incondizionata l’avrebbe avvolta fino a restituirla a se stessa. L’aura di quell’uomo era talmente perfetta che ogni volta se ne stupiva. Nonostante, ormai, lo conoscesse da anni. Lo schiavo perfetto. Quando le avevano raccontato della sua esistenza e, di quella piccola bottega non ci aveva creduto. E invece lo scetticismo cinico della sua professione aveva dovuto arrendersi all’evidenza poetica della vita e del piccolo perfetto scrigno di sogni che la libreria rappresentava, per chiunque avesse la ventura di posarci piede anche solo per pochi minuti. Era diventata il suo rifugio. E lui il suo mentore. La sua guida. Bastava uno sguardo a volte e la sua anima guerriera trovava requie. Voleva credere che anche stavolta sarebbe andata così.
Lui il ragazzo l’aveva sconvolta. E non era certo impresa facile. La sua ribellione. Il silenzio. Gli sgarbi. L’aveva lasciata completamente esposta. Non tanto verso di lui. Questo era nell’ordine naturale delle cose. Ma verso se stessa. Aveva dovuto ammettere di non averlo previsto e questo era intollerabile. Le redini del gioco dovevano rimanere solo nelle sue mani. Non avrebbe mai permesso al ragazzo di scombinare le carte fino a quel punto.
Ora doveva trovare un modo chiaro, netto, inequivocabile per rimettere le cose a posto e placarsi. Mentre camminava a passo deciso verso la libreria era quasi certa di aver trovato cosa. Ma aveva bisogno dell’aiuto del librario.
Eccola. Aveva avvertito il tumulto della sua anima da tempo. Ma aveva aspettato. Non era pronta a venire da lui. Non ancora. Era splendida come la ricordava. Gli occhi di onice brillavano sotto la corta tesa della cloche di feltro rosso che indossava. E quelle gambe. La sicurezza ritmica delle sue falcate era inebriante. I tacchi di acciaio dei suoi stivali di camoscio nero brillavano all’insolito sole autunnale. Il cielo aveva deciso di regalare alla Signora una giornata degna di lei. Il libraio non aveva dubbi. Era pronta. Aveva preso una decisione. Quasi invidiava il ragazzo. Godere della furia scatenata di quella Signora era un privilegio. Un dono preziosissimo. Lui lo avrebbe custodito come il più prezioso dei diamanti. Non era così sicuro che il ragazzo fosse pronto a fare altrettanto. C’era ancora troppo orgoglio in lui. Non era pronto a piegarsi totalmente. Ma, se avesse superato degnamente questa prova, allora, sarebbe diventato un buon discepolo. Forse. Avrebbe finalmente potuto trasmettere tutto il suo sapere a qualcuno che ne fosse davvero meritevole.
Era stato sgradevole. Se ne rendeva perfettamente conto. Aveva lasciato che il vento gelido della rabbia nascondesse il dolore che provava. Era ferito. E non gli andava di mostralo. Proprio a lei. Così l’aveva colpita. Era quasi rimasto stupito di averlo potuto fare. L’effetto sorpresa della sua ribellione l’aveva lasciata con la guardia abbassata. Doveva riconoscere che lei però era stata grande nella sconfitta come, lo era sempre nella vittoria. Aveva incassato i colpi col sorriso. Non c’era stata una sola incrinatura apparente nel suo sorriso. Non aveva vacillato. Ma lui sapeva che, già, si stava preparando a fargliela pagare. Si era anche fuggevolmente chiesto se sotto tutto il dolore. Al fondo di quel dolore che gli ghermiva l’anima non l’avesse provocata apposta. Lo schiavo in lui ora tremava. Non sapeva distinguere se di anticipazione o paura. Ma avrebbe pagato fino all’ultimo centesimo. Non l’avrebbe delusa in questo. Mai. Lui le apparteneva di questo non avrebbe mai permesso che lei dubitasse un solo singolo istante.
Eccolo l’ingresso della libreria. Il vecchio librario lo accolse con un sorriso in cui brillava tutta la consapevole complicità di un uomo che conosce perfettamente il destino dell’altro. E forse un po’ lo invidia. Il giovane uomo seguiva i passi lenti del librario lungo la scala a chiocciola di molato ferro battuto. Verso quella stanza ricoperta di preziosi incunaboli e, rischiarata solo dalle torce. C’era già stato una volta. E non aveva mai potuto dimenticarlo.
Era seduta su una sedia medioevale che pareva un piccolo trono. Lo schienale rivestito di velluto cremisi incorniciava il suo volto dalla carnagione dorata accendendole gli occhi di riflessi ferini. Il corsetto di pelle viola che indossava sopra l’aderente gonna di seta non lasciava dubbi sulle sue intenzioni. Violente. Sanguinose. La bocca gli si era seccata. Le note della cavalcata delle valchirie riempivano l’ovattato silenzio della stanza. Un brivido di calda anticipazione lo attraversò.
Lo guardò. Ora che era davanti a lei. Si sentiva invasa da una calma perfetta. Il tavolo di ebano nero nell’angolo della stanza sembrava chiamarla sornione. Si alzò e afferrata la sottile striscia di cuoio nero spinse il ragazzo con il volto sul tavolo. Lo teneva schiacciato contro il tavolo con una mano. Sorrideva mentre con l’altra gli allacciava il collare dal quale pendeva una corta catena di acciaio a mo di guinzaglio.
“Oggi ti insegnerò un paio di cose ragazzo. Sono certa che non riuscirai più a dimenticarle. Ad una Signora si deve comunque rispetto. Alla propria Signora si deve sempre devozione. Sempre, ragazzo!”.
Senza nemmeno rendersi conto come si ritrovò coi polsi bloccati al muro, disteso sul tavolo. Supino. Le gambe spalancate. Lei si era sfilata la gonna e aveva agganciato la sua cintura fallica. Quella viola, che lui le aveva regalato. Nella mano destra lo spanker di cuoio nero.
Il libraio si accorse di aver trattenuto fiato. La Signora era magnifica. Una belva in procinto di sbranare la sua preda. Selvaggia e implacabile. Fiutava l’odore del sangue. Erano parecchi minuti che il giovane uomo taceva. Il libraio scrutava la sua anima in cerca di risposte. Voleva essere certo. Non poteva permettersi alcun errore. I suoi poteri erano preziosi per le Signore. Colui che lo avrebbe sostituito avrebbe dovuto essere uno schiavo perfetto come lui. C’era ancora tempo. Ma la sua era una vocazione. Un carisma limpido e raro come un diamante nero. Se nel ragazzo brillava anche solo una punta del suo stesso carisma ora l’avrebbe colta.
Il primo colpo arrivò netto. Se l’era aspettato. Proprio lì. Sui coglioni. Sussultò ma si costrinse a non emettere un gemito. Non gliel’avrebbe reso facile. Colpì ancora e ancora. Una sequenza ininterrotta di colpi. Dopo il ventesimo smise di contarli e si permise di emettere un gemito. Basso. Gutturale.
Contemplava le natiche e il ventre del ragazzo arrossate dai suoi colpi. Un gran bello spettacolo. Ma naturalmente non era che l’inizio. Non aveva fretta. Il ragazzo avrebbe implorato. Strattonando il guinzaglio lo costrinse ad alzare la testa e con un colpo secco gli ficcò la cappella del dildo viola in bocca.
Gli occhi gli brillavano. Il piccolo bastardo era davvero schiavo nell’anima. E forse nemmeno lui si rendeva conto quanto. Spinse più a fondo il dildo. Il ragazzo succhiava avido come se non avesse mai fatto altro. Come se fosse nato per quello.
Gli chiuse la gola con la cappella. Sentirlo soffocare intorno a quel cazzo. Il suo cazzo. Le mandava brividi di eccitazione a sciogliersi tra le cosce bollenti.
“Ahhhhhhhhhhhhhhh. Si. Signora. Si” Non gli aveva lasciato tregua. Stava ancora cercando di tornare a respirare normalmente quando lei glielo aveva messo nel culo. Un solo colpo. Secco. Violento. Si era sentito lacerare tutto. Anima. Corpo. Cuore.
Il ritmo di lei era in continuo crescendo. Lo martellava. Gli teneva le gambe spalancate e appoggiate sulle sue spalle. Era completamente inerme. Totalmente offerto a lei. E poi era iniziata la vera punizione:” Cosa sei tu? Avanti rispondi bastardo… e bada di non sbagliare. Sarebbe peggio per te…”. La voce di lei era dura. Lui si era sentito rimescolare. Come se lei, invece che insultarlo lo avesse accarezzato e, aveva risposto la voce rotta, ansimante. Il dolore che. invadendogli il cervello. diventava piacere squisito: “Sono una troietta. Una troietta in calore Signora”. “ E a chi appartieni piccola troietta disobbediente? A chi appartiene questo culo rotto? La voce della Signora era leggermente affannata mentre i colpi diventavano sempre più incalzanti e la fica le pulsava ad ogni affondo un po’ di più.
“A lei Signora. Appartengo solo a lei. Sono la sua troia. Creata per il suo piacere”.
Cazzo il ragazzo ne aveva davvero di fegato. Il libraio sedeva compiaciuto dietro lo specchio, celato da un bellissimo quadro di Frida, che ornava la parete di fronte al tavolo della stanza delle torture. E così non si era sbagliato. Aveva trovato il suo erede. L’animo del ragazzo era traboccante del bisogno di servire. Il libraio si concesse un dito di prezioso cognac mentre si accingeva ad assistere al gran finale.
“Spalanca le cosce per la tua Signora, troia. Ora ti sfondo questo culo divino che ti ritrovi. Ti spingo il cazzo fino in gola e ti riempio l’anima…”
Un minuto prima di essere travolta da un orgasmo devastante la Signora trovò al forza di stringere la mano sul suo frustino e mentre esplodeva bagnando le natiche arrossate, diede un solo colpo secco sui coglioni gonfi del giovane uomo che schizzarono sborra ovunque.
“Ecco gusta il tuo sapore schiavo. Il sapore della tua appartenenza. A me.”
Sganciato il dildo viola la Signora strinse la cintura della sua gonna di seta rapidamente e, mentre, le ultime note della cavalcata delle valchirie sfumavano, uscì dalla stanza. Il libraio le si fece incontro sollecito, porgendole la giacca di visone di cui lei si era liberata rapidamente appena arrivata. Accendendosi un corto sigarillo la Signora uscì nel nordico tramonto autunnale di quella città che amava.
Il libraio prese il suo barattolo di arnica, il canovaccio di lino bianco e scese rapidamente le scale verso la camera delle torture.
Il giovane giaceva sul tavolo. Sfinito. Gli occhi chiusi. Non aveva nemmeno provato a liberasi. Non sarebbe servito a niente. Ormai la Signora aveva marchiato per sempre la sua anima. Nessuna catena reale lo avrebbe legato più di quel marchio.
Il libraio depose il suo fardello sulla panca accanto al tavolo e in perfetto silenzio sciolse i polsi del giovane e sganciò il guinzaglio.
“Ecco ragazzo lì trovi tutto ciò che serve ora al tuo corpo. Per la tua anima, ti aspetto di sopra, davanti ad un buon bicchiere di cognac. Abbiamo molto di cui discutere. Davvero molto”.